Foto: Pia Zirpolo

 

E’ il classico caso emblematico. Parliamo di una malata e di una malattia. La persona è Pia Zirpolo, la malattia è la fibromialgia. Di cosa si tratta? Lo leggerete nella commovente lettera che la Pia ha mandato al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Del resto nessuno meglio di lei sarebbe in grado di descrivere in maniera comprensibile i devastanti risvolti di questa malattia. A noi della REA (Radiotelevisioni Europee Associate) e a tutti coloro che sono impegnati a battersi per un nuovo ed efficiente Stato Sociale interessa rimarcare che ormai si tratta di un problema che interessa 8 milioni di persone (ma sarebbe lo stesso anche se riguardasse solo Pia): un problema, del quale si è interessato anche il Papa ma che stenta a trovare una soluzione ragionevole a livello istituzionale.

 

Ma cosa chiedono in sostanza questi malati? Semplicemente che la fibromialgia venga considerata una malattia altamente invalidante per poterla inserire nei LEA cioè, tra quelle prestazioni che il Servizio Sanitario nazionale è tenuto a fornire a tutti i cittadini gratuitamente o dietro pagamento di una quota di partecipazione (ticket). La domanda che ci poniamo è come è possibile che lo Stato Italiano continui a definire la fibromialgia una ‘sindrome’ (proprio per svilirne la morbosità) quando lo stesso Parlamento europeo ha riconosciuto ampiamente la natura nefasta di questa malattia già nel lontano 13 gennaio 2009, con un documento firmato da ben 393 europarlamentari? Per chi volesse approfondire l’argomento suggeriamo di leggere (possibilmente per intero, anche se lunga) la lettera inviata da Pia al Presidente Mattarella. (R.S.)

 

Egregio Presidente della Repubblica Sergio Mattarella,

 

Mi chiamo Pia Zirpolo, nata il 30/11/1960,a Metz( Francia),residente a Lodi. Le scrivo per renderLa partecipe del mio dolore e per chiedere il Suo aiuto: soffro di fibromialgia, una malattia “invisibile per chi non ne soffre” e di parecchie altre patologie: sono autoimmune, ho avuto 24 Polmonite e 20 Varicelle in due anni-un record praticamente. La fibromialgia è una bestia, ti uccide tutti gli organi, ho perso un occhio per una maculopatia retinica e sto perdendo anche l’altro, soffro di ipertensione e grazie a lei sono in ipotiroidismo, accuso fortissimi dolori 24 ore su 24 che variano di giorno in giorno ed anche di ora in ora. È qualcosa che non posso prevedere. Purtroppo,  nel mio vocabolario non esiste più la parola domani! Vorrei farLe capire che io devo ancora imparare ad accettare il mio corpo con i suoi limiti e non è facile.

 

 

Non vi è una cura per la fibromialgia ma cerco di alleviare i sintomi ogni giorno con mille farmaci. Uso anche la Morfina e ben altro (oggi faccio uso anche di Metrotrexate, un chemioterapico che mi pratico nella gamba ogni sabato e che mi porta disturbi quali vomito, nausea e perdita dei capelli). Spettabile Senatore ,non ho chiesto io di avere questo male che mi succhia il midollo ogni giorno, che mi tormenta di giorno e di notte, che mi impedisce di uscire di casa, di lavorare o semplicemente di andare a mangiare una pizza con gli amici. A volte, per due o più giorni consecutivi, non sono in grado neanche di alzarmi dal letto a causa dei forti dolori e dell’enorme stanchezza. CERCO DI SOPRAVVIVERE A DEI DOLORI COSTANTI OGNI SINGOLO MOMENTO e non è facile. Certe persone credono che non sia possibile che IO STIA così male perché ai loro occhi il dolore non si vede. Non si vede ma c’è, mi creda, io il dolore di questa rara patologia cronica lo percepisco, per colpa sua ho dovuto persino smettere di lavorare.

 

 

Sono un’invalida anche se la mia malattia non è riconosciuta come malattia invalidante e di conseguenza non ho una pensione; godo di una pensione di inabilità lavorativa pari a 1000 euro, ma purtroppo questi soldi non bastano per pagare il fitto di casa, le bollette, il cibo e le medicine che servono per lenire i sintomi della mia malattia. Io non vivo ma sopravvivo lottando contro i mulini al vento; delle cose che possono sembrare facili da fare possono non esserlo. Non necessariamente qualcosa che sono in grado di fare il giorno prima lo posso rifare il giorno dopo, ad esempio, rifare il letto. Ultimamente non ci riesco più, non apro nemmeno le persiane, vivo al buio in una camera da letto da sola con due gatti che mi fanno compagnia e sono diventati testimoni del mio dolore fisico e morale. A volte mi deprimo, ma chi non lo farebbe con un dolore cosi forte e costante? Non è facile parlare della mia malattia e del mio dolore, il rischio è che la rabbia e il rancore prendano il sopravvento, che il lamento diventi fine a se stesso e che le lacrime velino gli occhi e la realtà. Eppure, se dopo 5 anni di QUESTA MALATTIA sono qui a scrivere di convivenza con la malattia, vuol dire che su questa avventura che mi è capitato di vivere è possibile gettare uno sguardo diverso. Vuol dire che, tra le righe incise quotidianamente dal dolore, esistono spazi di libertà che ciascuno può imparare a riempire di sentimenti, emozioni, sensazioni sottili, azioni imprevedibili.

 

 

C’è un’altra storia, parallela a quella della sofferenza, che può riscattare una vita altrimenti invivibile. Perché la convivenza tra noi, quell’altra parte di noi che è la malattia e, da non dimenticare, ciò che sta intorno a noi, è tremendamente difficile, ma possibile e, soprattutto, necessaria. È come in una di quelle famiglie un po’ speciali nelle quali ciascuno ha una personalità forte e libera: ciascuno ha bisogno dei suoi spazi e dei suoi tempi, e capita che si prendano strade diverse e contrastanti, succede che ci siano incomprensioni, distacchi, separazioni. Ma alla fine ci si ritrova, ci si riscopre, ci si ricongiunge quando, di fondo, ci sono rispetto e amore. Così, ci vuole un grande amore per il nostro piede sinistro quando decide di non volerci più sostenere, ci vuole rispetto per il piede destro quando, da un giorno all’altro, segue le imprese del fratello. Se penso a quante volte mi sono ostinata a indossare scarpe normali, non dico quelle con tacchi alti e punte strette, ma scarpe normali, sandaletti estivi.Quante volte, dopo averle portate per qualche ora, nella speranza che avessero pietà per i miei piedi e comprensione per il mio desiderio di apparire una donna normale, ho dovuto rinunciare all’estetica .Quanto tempo ho impiegato per capire che non erano le scarpe a fare male, ma i piedi e che piedi nuovi non si trovano al negozio neppure pagandoli a peso d’oro. Così, lentamente, ho imparato a rispettare i miei piedi malandati calzando le solite vecchie scarpe ortopediche, purtroppo bucate.

 

 

Può sembrare una sciocchezza, lo so ma nelle brevi pause che la malattia mi ha concesso ( ora di pause non ne ho più), ho preso a piene mani tutto quello che ho potuto. Nei periodi di tregua ho vissuto 10 minuti di una vita normale, non sapendo che l’indesiderata compagna continuava a lavorare nell’ombra. Ho vissuto. Ogni istante di quella vita piena, ha corroso le mia vita, ogni nuova esperienza ha rinvigorito il mio carattere e dato senso all’esistenza. Avrei potuto fare altrimenti? Non voglio suicidarmi, non voglio sopravvivere ma vivere fino alla fine, ne ho il diritto. Ho raccontato dei miei piedi e ora posso raccontare delle mie, delle nostre mani e del nostro corpo. Dobbiamo amarli enormemente, gli oggetti, per prenderli con queste mani dolenti: di un bicchiere studiamo la forma per capire come afferrarlo, lo soppesiamo per essere sicuri che riusciremo a portarlo alla bocca, ne tastiamo bene la superficie perché non scivoli via. Conosciamo a fondo ogni oggetto per farcelo amico, per non dover rinunciare troppo presto alla sua utilità. E quando questo accade, ecco venirci in aiuto i cosiddetti “ausili”, che scopriamo quasi sempre per caso perché nessuno ci dice che sono lì proprio per noi. E li compriamo, carissimi come sono, a caso perché nessuno ci dice quale esattamente fa per noi o anche perché proprio non esiste l’ausilio ideale.

 

 

Quell’apribottiglie che fino a ieri ci era amico, oggi non vuole saperne delle nostre mani e diventa estraneo, un pezzo di ferro inutile. Comincia la ricerca, cominciano i soldi buttati al vento per un utensile al quale la gente normale non fa troppo caso mentre per noi può essere vitale. E qualcosa di simile può accadere per le maniglie delle porte e delle finestre, per i cassetti di vecchi mobili che amiamo, d’improvviso sembrano fatti di piombo, per leve e pulsanti, rubinetti ed interruttori che si ribellano alle nostre fragili dita e non si lasciano più comandare. È un ammutinamento generale! Per non parlare dei tutori (scarpe, plantari, tutori per gomiti, polsi, caviglie…) che non vanno quasi mai bene, o della fisioterapia che, ai malati cronici e non tanto giovani, si tende a non prescrivere più. ed essendo una malattia non riconosciuta dobbiamo pagare tutto. E quando neppure gli ausili ci vengono in aiuto e i tutori ammaccano la pelle e ci fanno sentire dei marziani, c’è bisogno di altre mani, delle mani di qualcun altro.

 

 

Anch’io ora ho bisogno di altre mani, ma nella mia testa che, memore di corse a perdifiato, ancora crede di essere piantata su un corpo sano, sopravvive con tenacia l’idea che a 54 anni ci si dovrebbe lavare e vestire da soli, si dovrebbe assaporare il piacere di affettare il pane o di sbucciare la frutta, si dovrebbe poter godere della libertà di uscire di casa senza farne domanda in carta bollata. C’è da imparare a convivere con tutto questo perché la malattia è tutto questo, non solo dolore fisico, pillole colorate e terapie innovative. La malattia è anche tutto quel dolore in più che l’ignoranza, nostra e di chi ci sta intorno, contribuiscono a determinare. Per imparare a riconoscere, accettare e curare amorevolmente la nostra ferita ci vuole tempo. A me ne è servito parecchio per accettare di sentirmi classificata come “handicappata-disabile” o diversamente abile che dir si voglia-invalida più o meno grave-inabile al lavoro-, per imparare a dire grazie di questi riconoscimenti, un grazie a denti stretti per le medaglie al valore via via conquistate sul campo, per imparare a capire che gli altri possono non capire un bel niente di tutta questa nostra sofferenza, di questo indurirsi del carattere che loro chiamano di volta in volta coraggio o ingratitudine, ma che non è altro che una seconda pelle, spessa e coriacea, che va a ricoprire ferite sempre nuove.

 

 

Bisogna imparare a ritrovare dentro di noi, nel profondo, quel che resta della nostra tenerezza, della nostra inventiva, della fantasia e del sogno. Si procede per tentativi ed errori, si fanno piccoli passi avanti, qualcuno indietro. La nostra testa ribelle che si ostina a restare piantata sul collo, nonostante le paurose oscillazioni del dente dell’epistrofeo, comincia piano piano ad accogliere un corpo che, ormai anch’essa lo ha capito, non è più così sano. È un corpo limitato come lo sono i corpi umani per loro natura: alcuni di più, altri di meno, alcuni prima, altri dopo. Accogliere questi limiti, farne un punto di forza per ripartire ogni volta, per scoprire e mettere in moto le infinite potenzialità della mente, stare al loro interno da protagonisti riempiendo di vita ogni spazio libero: c’è da imparare tutto questo ed è dura. E sarebbe meno dura se le persone intorno a noi ci dessero una mano, se si fermassero ad ascoltare i nostri silenzi, a condividere un po’ della nostra obbligata immobilità fisica e del fermento interiore. Ma è raro che accada perché, mentre per noi è vitale apprendere modalità sempre nuove del vivere e del concepire la vita, l’apprendimento degli altri non è sempre necessario, a loro.

 

 

Siete i ben accetti nel mio mondo dove la follia diviene quotidianità, dove la mattina ci si sveglia col sorriso e si fanno i conti di ciò che ti fa male e si sorride al mondo, dove non si può lavorare perché il nostro lavoro ora è affrontare gli ostacoli, dove quasi sempre timbriamo il cartellino in ospedale per fare il mestiere più duro: il paziente. Dove vivere diviene la priorità, dove si fa amicizia con qualcuno che casualmente è inciampato nello stesso percorso e si comprende come la vita è fatta di cose povere e umili, dove si trova sempre un assoluto equilibrio, un senso di pace e di gratitudine verso una condizione che meno lo meriterebbe. Ecco,questo è la mia sopravvivenza. Assurda se si pensa che ci sono, invece, persone che abusano dei loro diritti, fingendo di essere ammalate. Personalmente, ho subito una serie infinita di umiliazioni, e al di là dei dolori fisici che con grande volontà ho sopportato è sopporto, oggi mi rendo conto di quanto la medicina tradizionale sia volta spesso a curare solo gli effetti, e quanta poca attenzione si dia al malato che in venti minuti deve raccontare tutto il suo excursus e ricevere la diagnosi, quanta aria di superiorità ci sia nell’approccio con il paziente, quanto poco tempo si dedichi all’interpretazione dei sintomi e quanto facile sia la prescrizione dei farmaci senza spiegare a cosa il paziente potrebbe andare incontro e quanto sia facile prescriverli senza aver accertato un vero e proprio disturbo.

I

 

o devo ringraziare il mio Medico di famiglia, il mio reumatologo.Dot Orazio De Lucia. La mia Amica Cristina Vercellone ( giornalista del Cittadino di Lodi ) alla signora Claudia Buccellati e al Dot Francesco D’Agostino,che mi hanno ascoltato e mi hanno capita. Ecco, questa sono io, nella mia quotidianità. Penso di meritare almeno una risposta, spero che si apra uno spiraglio per tutti e mi auguro che un giorno queste rare malattie possano essere riconosciute, a beneficio delle altre persone affette da diverse defaillance fisiche. In attesa di un Suo riscontro La ringrazio per aver letto la mia lettera e Le porgo i miei più distinti saluti.

Pia Zirpolo

 

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