Foto: Una manifestazione guidata da Juan Guaidò (col megafono). Nel riquadro Lisa Carolina. 

 

 

Ospitiamo volentieri la lunga lettera di sfogo inviataci da Lissett (meglio conosciuta come Lisa) Carolina, cittadina venezuelana, figlia di un ex politico e ormai residente da 25 anni in Italia (Fiumicino), senza aver mai perso i contatti con la sua tormentata patria e con molti dei suoi familiari che continuano vivere in questo Paese sud americano sprofondato nella peggiore crisi economica e sociale della sua storia. Alla pari degli ebrei prigionieri in Babilonia, evocati dal Nabucco di Giuseppe Verdi, Lisa insieme a milioni di altri venezuelani si sente prigioniera di un tragico momento storico che vede uno dei Paesi potenzialmente più belli e ricchi (è stato il maggiore produttore di petrolio del mondo) vivere una situazione decisamente avvilente sul piano umano e sociale. Per la cronaca la grave crisi è iniziata a partire dal 2013 a seguito della morte del Presidente Ugo Chavez, sostituito dal suo fido Nicolas Maduro e dal contemporaneo crollo del prezzo del petrolio. Ma ecco cosa ci ha scritto la Carolina. 

 

 

La capitale del Venezuela si trova al centro della geopolitica mondiale. Ma come si vive oggi a Caracas? Ai caraque­ños la politica internazionale interessa relativamente; sono soprattutto stanchi. Stanchi delle tante promesse non mantenute del presidente di fatto, Nicolás Maduro, da tempo in caduta libera e, da gennaio di quest’anno quando si è insediato, anche di quelle del presidente ad interim, Juan Guaidó. Il primo continua a negare la crisi umanitaria, dando la colpa alle sanzioni USA quando, invece, le cause della crisi sono ben altre: soprattutto il modello economico del socialismo del XXI secolo che ha distrutto la produzione nazionale a cominciare dall’industria petrolifera (basti pensare che nel 1999 quando si insediò Hugo Chávez le industrie in Venezuela erano 12.000 mentre oggi sono poco più di 2.000 ed operano al 19% della loro capacità). Un mix di autoritarismo, corruzione e delinquenza ha portato a un esodo di persone senza precedenti nel continente ben prima che Donald Trump decidesse di sanzionare i leader del regime. Guaidó aveva invece promesso che il 23 febbraio scorso gli aiuti umanitari sarebbero entrati e invece quell’operazione fu il primo flop di una lunga serie. Alla sbandierata fine dell’”usurpazione” di Maduro (confermato presidente nel maggio 2018 in un’elezione non riconosciuta da una sessantina di Paesi) oggi a Caracas quasi nessuno crede più nelle promesse di Guaidò: non a caso il suo consenso si è dimezzato (ancora nel mese di gennaio era dell’85%).

 

 

Alla stragrande maggioranza della gente che ha un lavoro corrisposto in moneta nazionale, il bolivar, interessa poco sapere che il Messico di López Obrador, la Russia di Putin, l’Italia, la Cina, Cuba e l’Uruguay di Tabaré Vazquez riconoscono Maduro mentre gli Stati Uniti e la stragrande maggioranza dei Paesi UE stanno con Guaidó; oppure che l’ONU abbia creato una Commissione per indagare sulla violazione dei Diritti Umani a Caracas. Il motivo è semplice: la stragrande maggioranza dei venezuelani deve pensare esclusivamente a sopravvivere visto che gli stipendi sono da fame, mentre il 40% che è disoccupato vive ancora peggio. “Il governo ‘operaio’ fa collassare l’educazione” si legge sui cartelloni di protesta di un gruppo di maestri che si sono rifiutati di iniziare l’anno scolastico visto che con 6 euro al mese “è impossibile mangiare, figurarsi insegnare”.

 

Al centro commerciale Sambil di Avenida Libertadores alle sette di sera di un giovedì qualsiasi non c’è nessuno nel settore “food” e non perché non ci sia la carne per gli hamburger di McDonald’s o le arepas, il piatto tipico venezuelano, ma perché i prezzi sono assolutamente fuori portata per chi guadagna in bolivar. “Oggi a Caracas se non ci fossero i dollari e gli euro inviati da parenti ed amici emigrati all’estero nessuno di loro ce la farebbe” spiega Pedro, un italiano arrivato negli anni ’70. All’epoca il Paese era stato ribattezzato “Venezuela saudita” per le immense riserve di greggio, le maggiori al mondo certificate. Pedro è rientrato quest’anno nel nostro Paese perché “i costi della sanità là sono folli” e poi perché “la criminalità è dilagante”. A Caracas ha lasciato un appartamento di oltre 200 mq che non è riuscito a vendere perché il mercato immobiliare è stato distrutto e ora teme che gli venga espropriato grazie all’ultima trovata della dittatura. Il Venezuela, infatti, non ha nemmeno più la parvenza di una divisione dei poteri, e nelle carceri si contano ormai un migliaio di prigionieri politici, 250 dei quali appartenenti alle Forze Armate).

 

Maduro & co. hanno appunto lanciato di recente il “Plan Ubica tu casa”, letteralmente il “Piano trova la tua casa”, un censimento delle case abbandonate dagli oltre 5 milioni di venezuelani che hanno lasciato il Paese sudamericano e che ora, se disabitate, potrebbero essere occupate dagli amici del regime nonché dai collettivi chavisti, gruppi paramilitari al soldo della dittatura. Il condizionale è d’obbligo perché Maduro ha negato questa eventualità, ma sono centinaia le segnalazioni di occupazioni abusive delle case appartenenti a coloro che sono dovuti emigrare. Che Caracas sia la città dei due presidenti – quello de facto, Nicolás Maduro, e quello riconosciuto da oltre 50 Paesi, Juan Guaidó, al popolo interessa poco. E ciò nonostante che la diplomazia internazionale, la geopolitica e persino i servizi segreti di molti Paesi da oltre un anno siano concentrati sullo sviluppo politico del Paese. A far paura è soprattutto la possibile “somalizzazione” del Venezuela, sul cui territorio sono presenti i terroristi/guerriglieri/narcotrafficanti di ELN (Esercito di Liberazione Nazionale), FARC (Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia), EPL (Esercito Popolare di Liberazione, detti anche “los Pelusos”), FBL (Forza Bolivariana di Liberazione), gruppi paramilitari come Los Rastrojos, Los Urabeños, ciò che rimane delle Aguilas Negras, i collettivi chavisti, i “pran” che gestiscono le carceri e il Cartello de los Soles composto da molti generali e leader del governo Maduro. Molti temono che ormai il Venezuela sia una pentola a pressione pronta a esplodere.

 

In mezzo a questo caos vivono i venezuelani, vittime e allo stesso tempo carnefici di loro stessi. Molti sembrano non avere altre vie d’uscita se non la fuga all’estero e con ogni mezzo. Con il fallimento di Guaidó non pochi venezuelani hanno perso la speranza di un ritorno al passato, quando Caracas non era la città più violenta al mondo, né quella con i salari più miseri del pianeta. “Lo stipendio base oggi è di 150.000 bolivares”, chiarisce Manuel, professione fotografo, con un piede in Colombia e l’altro a Caracas. Se fai il cambio con l’euro (che è quotato a 24.000 bolivares), significa che in un mese un mio connazionale percepisce 6 euro”. Certo qui il 90% della popolazione riceve aiuti statali, a cominciare dalle casse CLAP, acronimo che sta per Comitati Locali di Fornitura e Produzione, pacchi che dovrebbero essere distribuiti ogni mese a prezzi sussidiati con all’interno cibo ma che nella realtà arrivano ogni tre mesi. La qualità, inoltre, è pessima a tal punto che centinaia di venezuelani sono dovuti ricorrere al Pronto Soccorso dopo avere ingurgitato gli alimenti forniti loro dal governo Maduro.

 

Non solo le gestanti, i pensionati o chi non ha un lavoro ma persino chi fa il cuoco o il cameriere nei ristoranti a Caracas riceve dallo Stato un bonus di 80.000 bolivares, pari alla miseria di 3 euro circa. Poi ci sono i 25.000 bolivares del buono alimentare ma si tratta di briciole che non servono neanche a sopravvivere visto che un caffè costa di più (30.000 bolivar), un Kg di carne 90.000 ed un chilo di pesce 150.000 bolivar, ovvero quasi lo stipendio di 4 mesi! “Qui nessuno paga più nulla nella moneta locale” spiega Vitangelo, un imprenditore italiano che racconta come in Venezuela “l’economia è stata dollarizzata da tempo” mentre “il costo della vita è quasi come quello di Miami”. Per capire meglio come vive oggi l’80% della popolazione di Caracas, quella considerata povera e/o miserabile dalle statistiche ONU, è sufficiente ricordare che: 30 uova costano 36.000 bolivares, il 90% dello stipendio mensile, “una cena in un ristorante decente è inarrivabile, l’equivalente a 40 dollari”, racconta Juan Rosas, commerciante in pensione trasferitosi in Spagna dove ha raggiunto la figlia, mentre per portare a casa un litro di latte bisogna spendere un altro 80% di quanto si guadagna in 4 settimane. Una follia insomma, ed è davvero un miracolo come possano resistere i venezuelani che sono rimasti nella capitale. Non a caso sempre più famiglie sono costrette a cercare alimenti tra i rifiuti, le venezuelane sono diventate il target preferito delle mafie che gestiscono la tratta e il mercato della prostituzione globale, mentre hanno iniziato a prosperare sia la vendita di bambini per adozioni internazionali che quella degli organi. Un panorama da orrore insomma.

 

“Senza i soldi dall’estero sarebbero già morti moltissimi e sicuramente sarebbero emigrati molti più dei 5 milioni della diaspora attuale” cerca di dare una spiegazione logica al fenomeno Manuel, che ha scelto di vivere in Colombia per potersi far pagare dalle agenzie internazionali, come Reuters ed Associated Press in una valuta di un qualche valore. A differenza di un anno fa, quando Maduro tolse 5 zeri al bolivar (3 li aveva già tolti Chávez), i supermercati oggi “sono pieni di merci ma non vendono perché la gente non ha i soldi per comprare mentre sempre più prodotti hanno il prezzo direttamente in dollari”, racconta Vittorio, chef premiato dal Presidente Oscar Luigi Scalfaro come eccellenza enogastronomica italiana nel mondo. La distribuzione delle merci aumenta grazie al contributo di molte organizzazioni internazionali a cominciare dall’ONU, ma purtroppo prezzi rimangono astronomici per le misere tasche degli abitanti di Caracas. Un detergente per la cucina costa la metà di uno stipendio mentre per un chilo di farina bisogna lavorare una settimana. “Sugli scaffali c’è molta più varietà rispetto a Cuba, ma solo pochissimi possono comprare” spiega un medico cubano mandato dalla dittatura in missione umanitaria a Caracas e poi fuggito in Brasile.

 

Lo chef Vittorio invece da qualche mese si è trasferito a Panama a causa della criminalità. Sino ad allora gestiva il ristorante del Club italo-venezuelano, il più grande al mondo, ma sua figlia “insisteva per la mia sicurezza e il rischio di sequestri. Ebbene, nonostante le cose andassero bene e tutti pagassero in dollari, ho ceduto l’attività al Club per aprirne una più tranquilla qui, in riva al mare di Panama”. Oltre che di questo disastro sociale e umanitario, Caracas è anche la città delle sanzioni americane e lo specchio delle tensioni politiche che caratterizzano un po’ tutto il continente americano. Nell’urbe si vedono, quasi gomito a gomito, convivere super ricchi e miserabili. Già perché i super ricchi ci sono eccome. A prescindere dalla propaganda delle due fazioni contrapposte, los escuálidos, gli squallidi, come i chavisti chiamano chi non vota per loro, e los enchufados (più o meno “i raccomandati”) come gli anti-chavisti chiamano i supporter della “rivoluzione”, dopo 20 anni di governo del PSUV (Partito Socialista Unito del Venezuela, il partito di Maduro) le differenze sociali non solo non si sono ridotte ma sono aumentate. Unico risultato, statistiche alla mano, è stata la scomparsa della classe media. Se, infatti, nel lontano 1989 a Caracas esplose la rabbia popolare del Caracazo dovuto all’aumento del prezzo del combustibile deciso dall’allora Presidente Carlos Andrés Pérez, i poveri a quell’epoca erano meno di un terzo della popolazione mentre oggi sono triplicati.

 

Ma è cambiata anche la composizione di chi vive nei quartieri lussuosi e dei giovani che frequentano i locali notturni (per la verità sempre meno frequentati). Molti dei ricchi storici della Quarta Repubblica, ovvero il Venezuela pre1998 (quando Chávez vinse la sua prima elezione presidenziale e subito cambiò la Costituzione), non vivono più in Venezuela ma sono stati sostituiti dai nuovi ricchi “figli del chavismo”, i cosiddetti “bolichicos” o “boliburgueses”. Arricchitisi grazie ai tanti “colli di bottiglia” creati dalla burocrazia statale che controlla ogni settore dell’economia, a cominciare da quelli fondamentali del cambio, del commercio estero, delle banche, questi nuovi Paperoni sono in molti casi militari di medio ed alto grado (per capirci a Caracas oggi ci sono oltre duemila generali, più di tutti quanti sono i generali dei Paesi della NATO). Sono loro che controllano le dogane aeree e marittime (e dunque i porti), nonché la distribuzione degli alimenti sussidiati, comprese le farine, le carni e persino la carta igienica (sì, per assurdo che possa sembrare c’è anche un alto grado militare preposto al controllo e alla distribuzione di questo prodotto).

 

Il paradosso è che Caracas avrebbe tutto per essere un paradiso, con i suoi 900 metri sul livello del mare e un clima favoloso. Sullo sfondo della capitale, tra la città e il mare, a dominare è la montagna dell’Ávila, dietro c’è il porto della Guaira e poi il Mar dei Caraibi, con le spiagge dorate di Los Roques, porta d’ingresso di gran parte delle merci che riforniscono la capitale. Non tutto è miseria a Caracas, sia chiaro, e dove c’è il lusso è ancora più sfrenato che prima dell’avvento del chavismo. Prendiamo ad esempio La Lagunita, una delle zone più chic della capitale. Molti terreni sono dell’Università Simon Bolívar, una delle più importanti del Venezuela e poi c’è il Lagunita Country Club, su uno dei terreni più cari della capitale. Le ville sono spettacolari, nello stile di Miami, e gli edifici super moderni a dimostrazione che i soldi circolano, nonostante le sanzioni USA. Molti sono gli spazi verdi e le strade alberate a doppia corsia. Ci sono persino campi da golf maestosi che il governo diceva di voler espropriare ma che, a differenza di tante altre “occupazioni” fatte contro “poveri cristi”, non ha mai avuto la forza, o per meglio dire, l’intenzione rivoluzionaria di intervenire.

 

Poi c’è Los Guayabitos, nel comune di Baruta, un’altra parte buona dell’hinterland caraqueño. Qui le strade sono in condizioni pessime. Con l’auto bisogna andare a zig zag per evitare di finire in qualche buca-cratere capace di distruggere le sospensioni. In entrambi i quartieri, Lagunita e Guayabitos, tutte le abitazioni sono circondate da protezioni simil-militari, compresi fili di ferro con elettricità, per evitare intrusioni di malintenzionati. Dal distretto distretto di El Hatillo, zona turistica di Caracas, con molte case in stile coloniale e ristorantini, si possono invece vedere sullo sfondo quelle che in Brasile si chiamerebbero favelas e che a Caracas chiamano “cerros” o “rancho”: una quantità sterminata di catapecchie abbarbicate sulle montagne che circondano la capitale venezuelana. I poveri non vivono solo in favelas, ma anche in quartieri veri e propri. Il più emblematico è forse El Cementerio (Il Cimitero), dove però sono migliaia le paraboliche per vedere la tv (sino a 4 su un singolo balcone). Ultimo dato che definisce il disastro di un ventennio di chavismo: oggi un dollaro è quotato 20.000 bolivares, l’equivalente a 2 mila miliardi di bolivares se rapportato al periodo in cui Chávez decise di implementare il Socialismo del Secolo XXI. E così, mentre Maduro e Guaidó tengono impegnate le diplomazie di mezzo mondo, Caracas, che un tempo non lontano fu la città più ricca del Sudamerica, muore lentamente.