Riceviamo da Enea Franza, economista e direttore del dipartimento di scienze politiche dell’Università Internazionale per la Pace dell’ONU di Roma, un interessante quanto inquietante saggio sul futuro dell’Europa e, in particolare, dell’Italia. Si parla di tutele ambientali, del ruolo dell’innovazione tecnologica, della massiccia influenza delle piattaforme telematiche, dell’assoluta necessità di rivedere il nostro sistema di imposizione fiscale. Franza è anche consulente scientifico e uno dei principali sostenitori del Gruppo di Pressione per lo Stato Sociale nel mondo ( Pagina Facebook https://www.facebook.com/groups/508452549970758/?ref=share ) che si propone di rafforzare e rilanciare il welfare su scala nazionale e internazionale (vedere il servizio di Punto Continenti – http://puntocontinenti.it/?p=16702 ). In fondo all’articolo abbiamo riportato anche un video fatto con Franza da REA International. 

 

La risposta alla domanda di se l’Italia e, a maggior ragione, l’Europa, uscirà dalla crisi del Covid 19 dipenderà, a nostro modo di vedere, da una scelta fondamentale da fare, ovvero, di se faremo business-as-usual, o useremo questa crisi, e le lezioni apprese, come un’opportunità per riformare radicalmente la nostra Unione. Infatti,  se faremo business-as-usual, usciremo da questa crisi con un carico di questioni irrisolte e senza gli strumenti per affrontare il futuro che impone la risoluzione di due fondamentali questioni: L’ambiente e le innovazioni digitali.

A ben vedere, peraltro, la crisi dell’Unione Europea segna, in qualche modo, il fallimento dell’ultimo grande progetto razionalistico del Novecento, che ha posto alla base della costruzione europea su una identità europea razionalista ed astratta, invece che ricercarla nella tradizione, cioè nel patrimonio culturale e civile ereditato dal cristianesimo e dal liberalismo. Il risultato è stato un moloch inestricabile di leggi, norme, regolamenti, amministrati da una burocrazia pervasiva ed autoreferenziale, prona alle ideologie correnti (il multiculturalismo e il mercatismo in primo luogo) o ai diktat dei paesi più forti. Una vera e propria “gabbia d’acciaio” da cui, peraltro, non è facile nemmeno uscire, come mostra plasticamente la “questione” Brexit.

  1. L’Italia e l’Europa

Quando a giudicare dai risultati delle varie analisi della percezione degli italiani sull’Europa, solo il 30% degli intervistati dà un giudizio «positivo o molto positivo» dell’Unione Europea, mentre danno un giudizio «negativo o molto negativo» il 62% degli intervistati. Eppure per decenni l’Italia è stato il Paese più euro-entusiasta di tutto il continente europeo.

A cosa imputare tale cambio d’opinione?  Atteso che i giudizi si fondano sulla memoria, è razionale ritenere che essa trovi motivazione nella delusione per la mancata realizzazione delle promesse connesse alla costruzione europea. L’accettazione di ogni sorta di sacrificio richiesto per decenni è stata giustificata con “l’Europa lo vuole”, non ha portato i benefici promessi. In realtà, ci si confronta con povertà crescente, pubblica amministrazione allo sfacelo, welfare state poverissimo, infrastrutture cadenti, scuola ed università abbandonate alla buona volontà dei singoli. E, molto di ciò viene imputato, a torto o ragione, non entro nel merito, all’Europa che, evidentemente, è ritenuta responsabile di questa situazione.

Quali gli errori di fondo e come profittare delle emergenze per costruire un Europa utile ai cittadini? L’Unione europea è il capro espiatorio perfetto perché, come cennato, appare come un organismo lontano ed impersonale. Ma ciò che si decide a livello europeo è quasi sempre frutto della mediazione degli Stati che scelgono quali poteri dare alle istituzioni sovranazionali attraverso i trattati. La scelta di chiudere (o non chiudere) le frontiere interne, rispettare o meno le linee guida dell’Ecdc[1], stabilire strategie di campionamento, sorveglianza e comunicazione in modo indipendente è prerogativa degli Stati nazionali. Ed in effetti Francia, Italia, Germania, Spagna ed altri non si sono comportate tutte allo stesso modo. Dunque la questione sta, evidentemente, a monte.  Peraltro verso, le emergenze attuali,  la questione energetica, l’emergenza immigrazione sono tutte  questioni di portata cosi ampia che impongono un ripensamento degli attuali equilibri.

In particolare, i rapporti di forza attuali non sono in grado di sostenere uno sviluppo equilibrato, essendo il potere troppo concentrato nei paesi di influenza tedesca.

Viceversa, l’allargamento dell’Unione ai Paesi del Sud Europa ed, in particolare, a quelli che insistono sul bacino del mediterraneo, con l’apertura di un processo di adesione a  Paesi come il Marocco, Algeria, la Tunisia, una rinnovata Libia, l’Egitto, e degli altri  paesi costieri fino alla Turchia, possono contribuire a risolvere, a nostro modo di vedere, importanti questioni, tuttora difficilmente risolubili; in particolare, la questione energetica, con una scelta decisa verso la produzione di energia con il solare o il mare, e dunque lo “sfruttamento energetico” del mar mediterraneo e del sole che bacia tutti i paesi rivieraschi e la questione immigrazione. Su quest’ultimo aspetto, la scelta per un sud “bacino” d’energia, può contribuire a dare speranza alle migliaia di emigranti del estremo Sud del mondo. In tale contesto poi l’evoluzione informatica e le nuove tecnologie possono moltiplicare e semplificare tale processo contribuendo, peraltro assieme ad un ritrovato benessere, all’evoluzione in senso sempre più democratico dei paesi del nord africa.

Prima dell’attuale crisi scaturita dal blocco forzato di molte attività produttive a causa dell’emergenza Covid19, l’Italia aveva già sentito il peso di una dinamica economica asfittica, determinata, in particolare, da una difficoltà ad iniettare liquidità nel sistema. Se i tassi di interesse sono oramai, da molto tempo, prossimi allo zero, il quantitative leasing ha di fatto consentito soltanto alle banche di finanziarsi senza problemi, mentre nell’economia reale mancano le risorse finanziare per svilupparsi. La deflagrazione dell’attuale crisi ha rotto gli argini della situazione rendendo indispensabile la liquidità per la sopravvivenza delle persone che hanno perso o si sono trovate paralizzate nel proprio lavoro.

Per far fronte a questa emergenza, è evidente, che in un paese che ha rinunciato a batter moneta e che si è affidato ad una banca centrale sostanzialmente “estera” e privata, l’unica soluzione sembrerebbe essere il debito. Extra-debito che però oscillerebbe tra 100 e 300 miliardi di euro. Una cifra difficilmente sostenibile per un Paese che ha già un rapporto debito/PIL oltre il 130%. L’unica soluzione ragionevole per affrontare la situazione attuale è, pertanto, quella di agire con schemi che riconoscano un reddito di cittadinanza con almeno due caratteristiche: Non gravi sulle già sofferenti casse pubbliche; Diventi uno strumento per sostenere la produzione nazionale. La tecnologia, oggi, ci aiuta rispetto al passato in quanto consente di operare con strumenti virtuali e addirittura con un sistema innovativo come la Blockchain.

  1. L’innovazione tecnologica con il Covid19

Oltre all’impatto diretto sulla salute e sull’economia, il Covid-19 ha avuto un effetto diretto su una nuova e più articolata dieta mediale. I dati forniti dalle ricerche in materia evidenziano la crescita impressionante di home banking, social media e piattaforme di sharing, a cui si accompagna l’esplosione di nuove realtà come TikTok ed il mondo del gaming, divenuti, ormai, veri e propri fenomeni di massa.  Le analisi sul campo dimostrerebbero che, post Covid19, tre persone su quattro sono ora più propense alla fruizione in streaminge all’e-commerce, rispetto all’anno scorso e il nostro paese si uniforma al trend globale per quanto riguarda il primo aspetto, segnando leggermente il passo sul secondo (solo 65%). Tali comportamenti si riscontrano anche tra le fasce più mature.  Si stima che nei prossimi mesi, nel mondo, due terzi delle persone tra i 55 e i 65 anni faranno acquisti online, mentre circa sei su dieci fruiranno di contenuti in streaming.

In definitiva, Covid19 ha portato un vasto pubblico ad accedere, spesso per la prima volta, al digitale, accelerando l’evoluzione e sviluppando cambiamenti culturali destinati a rimanere. È proprio tale adozione cross-generazionale il fenomeno più interessante di questo momento storico senza precedenti ed induce a riflettere su una serie di aspetti. In primo luogo, su un profondo cambio di paradigma che le aziende dovranno necessariamente tenere in considerazione. Un esempio su tutti, l’e-commerce, che diventerà presto commodity, elemento non più negoziabile nella scelta di un prodotto/servizio da parte dei consumatori.

La sfida per i brand sarà quindi capire come tali comportamenti evolveranno al di là del momento contingente, per cogliere le opportunità e cominciare a correre alla nuova velocità del consumatore. Per tutti gli altri, resta la minaccia della perdita irreversibile di rilevanza, per l’assenza di un’offerta capace di rispondere a tali mutate esigenze. Nella sostanza l’offerta delle imprese dovrà sostanzialmente adattarsi ed essere in presenza o a distanza, e-commerceo in storeonline offline e capace di adattarsi a un consumo che è capace di scegliere, di volta in volta, ciò che è più conveniente. In secondo luogo, in questi mesi di emergenza sanitaria determinata dalla diffusione del Covid-19, molte imprese hanno fatto ricorso per garantire la prosecuzione dell’attività e, contestualmente, tutelare la salute dei propri dipendenti al lavoro agile o smart working[2].

E’ bene premettere che tale misura, invero mai imposta in Italia, tranne che nel pubblico impiego, non è discesa da scelte pianificate e stabili esigenze organizzative aziendali, bensì dalla pragmatica necessità di lavorare permanentemente da casa durante il lockdown, necessità, tuttavia, che è venuta meno già dal mese di luglio. Tuttavia, va osservato come lo smart working ha di fatto consentito, come sopra cennato, la parziale continuità operativa di molti processi produttivi, ma anche una piena stabilità retributiva per i prestatori che hanno potuto utilizzarla.

Dunque, riprendendo il filo del nostro ragionamento, è bene osservare come l’emergenza Covid 19 abbia funzionato da detonatore per un più robusto impiego della possibilità della tecnologia digitale anche nel mondo del lavoro, innovando, in un brevissimo periodo, il modo di operare di aziende ed enti pubblici. In effetti anche se molti contratti di lavoro prevedevano forme varie di lavoro a distanza, in pratica, tali situazioni erano considerate a margine e non si era, tranne rarissimi casi provveduto ad un diffuso impiego. Ad esempio, Stato ed enti locali sono ricorsi in forma massiccia al lavoro da remoto, una pratica che si è rivelata in definitiva capace, quando opportunamente monitorata, di rispondere alle esigenze degli utenti e del territorio.

Il terzo aspetto che mi preme sottolineare e l’impulso dato dall’emergenza Covid 19 alle modalità di formazione a distanza.  L’obbligo di quarantena ha imposto il ricorso a piattaforme virtuali per quanto riguarda la didattica di ogni ordine e grado. Scuole e università in primo luogo hanno proseguito le lezioni sfruttando il metodo dell’e-learning, tramite apposite piattaforme sulle quali si sono svolte lezioni di gruppo in tempo reale.

2.1. Le piattaforme

La caratteristica comune è che il processo in corso ha al centro le c.d. piattaforme informatiche, ovvero, basi costituite da  hardware e/o software su cui sono sviluppati e/o eseguiti programmi o applicazioni. In effetti, a ben vedere, internet, in quanto “rete di reti”, assolve alla sua funzione di base tecnologia erogante servizi, disponibile per tutti i dispostivi connessi. La rete vive in più nature hardware, che si distribuisce su diversi dispositivi, che danno rilievo alla connessione, che si snoda sino a singoli hub fra di loro distinti e diversamente distribuiti sul globo. In secondo luogo, il web oggi è caratterizzato dalla sua “architettura della partecipazione”, la filosofia della condivisione, basata sullo sharinge sul peer-to-peer(P2P), che garantisce all’intelligenza collettiva di incanalarsi e di esprimersi nella realizzazione e nel miglioramento di prodotti condivisi, per lo più di user-generated-content. Parallelamente anche i software non sono più considerati come programmi deputati esclusivamente a mere funzioni computazionali, ma come app(applicazioni), le quali recano un vantaggio maggiore di quello che posseggono intrinsecamente e che, per di più, si migliorano con l’uso condiviso attraverso il loro remixing. Questo aspetto se da un certo punto di vista costituisce l’elemento di “perfezionamento” del servizio offerto, permettendo allo stesso, di declinarsi in nuovi paradigmi culturali, dall’altra parte costituisce la chiave di volta del plusvalore generato dalle stesse.

In effetti, l’acquisizione dei dati personali e comportamentali dell’utente costituisce forse il principale business dei gestori di piattaforme. Ad esempio se uso piattaforme come Google Hongouts o Zoom per le videoconferenze o per le lezioni con gli studenti, posso utilizzare per attività di profilazione anche i dati audio e video degli utenti, oltre ai file condivisi dagli utenti. Peraltro, a specificarlo sono le stesse informative privacy, dove si precisa che potranno essere utilizzate tutte le informazioni che l’utente fornisce o crea durante l’utilizzo del servizio. Possono essere memorizzate anche la cronologia delle attività, i dati di geolocalizzazione dei vari dispositivi usati, i dati dei contatti con i quali comunichiamo ed i video che guardiamo. E questo per poterci profilare e offrirci servizi e pubblicità personalizzata. In genere è lasciata all’utente, poi, modificare le impostazioni della privacy in modo da minimizzare la raccolta dei dati[3].A questo poi si aggiungono varie attività fraudolente poste in essere per rubare, attraverso il phishing, dati personali, credenziali di accesso e codici di pagamento. I dati possono essere condivisi con tutte le aziende che utilizzano i servizi delle piattaforme di videoconferenze online, che sono in grado di fornire un servizio gratuito proprio grazie alle inserzioni pubblicitarie.

In definitiva, l’utilizzo di piattaforme ha per l’utente un costo esplicito nel caso si paghi un servizio per accedervi ma anche costi impliciti. In particolare, questo tipo di costi non hanno un evidente esborso monetario ma permettono alla piattaforma, attraverso l’acquisizione di dati (liberamente o meno) forniti dall’utente, di offrire ai soggetti interessati informazioni utili per la loro attività; sul punto vorrei essere chiaro che, ai fini del nostro ragionamento, i dati assumono valore anche quando non possano essere assegnati ad una persona specifica perché resi del tutto anonimi[4].

2.2 Nuova teoria del plusvalore.

Secondo Karl Marx, diversamente dal servo della gleba, che sa quando lavora il suo campo e quando invece lavora il campo del padrone, l’operaio industriale, che vende il suo tempo, non il risultato del suo lavoro, non sa quando ha finito di lavorare per sé e quando ha incominciato a lavorare, gratuitamente, per il padrone. È sull’ignoranza di questo stato di cose, che Marx stesso definisce plusvalore: i poveri diventano sempre più poveri e i ricchi sempre più ricchi. Parallelamente succede, a nostro modo, di vedere nelle piattaforme. L’utilizzatore della piattaforma non sa che sta di fatto contribuendo alla ricchezza della piattaforma con il suo tempo impiegato a mettere in modo consapevole ed inconsapevole informazioni e dati personali come sopra già rilevato. Le piattaforme quindi non remunerano l’utilizzatore e, quindi, operano un furto che è alla base del plusvalore che realizzano. Tale plusvalore è tenuto dai gestori delle piattaforme, che moltiplicano i loro profitti e, tra l’altro, operano un controllo che si estende pericolosamente alla società.

E’ notorio il caso di Cambridge Analytica, società americana specializzata nel raccogliere dai social ogni tipo di dato dei loro utenti, che attraverso la raccolta dei “mi piace” e dei commenti sui post, nonché della geolocalizzazione nel momento della condivisione dei contenuti, delle pagine seguite e delle critiche manifestate, li elaborava per creare profili accurati di ogni singolo utente. A questi dati, se si associano il possesso di dati patrimoniali e finanziari che consentono di conoscere la situazione economica di ciascuno, si ricavano informazioni utili al marketing (e alla politica), capaci di portare a strategie di discriminazione.

Ma la questione non si ferma qui. Il problema della raccolta indiscriminata dei dati porta, dunque, a riflessioni anche sul controllo sociale: in fondo, per tenere sotto osservazione una persona o un gruppo di persone basta raccogliere un numero sufficientemente grande di dati sulla sua vita. Infatti, se analizzati con le tecniche della psicometria, che consentono di risalire a un identikit di ciascuno di noi, questi dati potrebbero in teoria consentire di formulare previsioni comportamentali sulle nostre azioni  future.

  1. Riequilibrio con la tassazione.

Quanto evidenziato con riferimento alle piattaforme ed i relativi gestori, permette di rafforzare la convinzione che sia nel giusto chi spinge per la tassazione dei giganti del web.

Le grandi aziende di Internet sono state a lungo oggetto di denunce, per lo più pubbliche, riguardo sia l’esiguità delle imposte versate rispetto ai ricavi molto spesso più che miliardari iscritti a bilancio, sia in relazione al tasso di competitività, di fatto completamente stravolto, rispetto ad altre multinazionali attive in settori diversi e/o collaterali.

Alcuni Stati europei, tra cui la Francia, hanno deciso, da qualche tempo, l’introduzione di meccanismi e strumenti di prelievo dedicati alle grandi aziende che controllano Internet, prevedendo un prelievo del 3% sui ricavi digitali, correlati allo sfruttamento dei relativi copyright e royalty incluse, delle aziende che effettuano le loro vendite principalmente nel cyberspazio. In tal senso la Francia ha semplicemente aperto una strada, sulla quale anche altri Paesi hanno deciso convergere, elaborando norme fiscali ad hoc generalmente destinate a ridurre i ricavi di aziende, molte delle quali statunitensi, che registrano guadagni transnazionali che sfuggono spesso alla stretta delle rispettive Amministrazioni finanziarie. Naturalmente, gli Stati Uniti non sembrano affatto disposti ad accettare e ad aprirsi all’utilizzo dell’arma di nuovi dazi.

Come funziona una tassa digitale in Francia? La legge francese impone il prelievo del 3% alle società con almeno 750 milioni di euro (845 milioni di dollari) di ricavi globali e vendite digitali di 25 milioni di euro effettuate entro i confini francesi e destinate a clienti/consumatori che vi risiedono. Delle circa 30 imprese interessate, la maggior parte sono americane, anche se, in realtà, l’elenco comprende anche aziende cinesi, tedesche, britanniche e persino francesi. In pratica, la finalità è quella di concentrare e/o ricondurre la tassazione sul luogo in cui effettivamente si trovano gli utenti dei servizi online, piuttosto che su dove le aziende basano la propria sede europea o indirizzano i rispettivi guadagni in relazione allo sfruttamento dei diritti derivanti dai copyright multipli da cui i servizi e i canali utilizzati dalle società per erogarli dipendono.

Tradotto, le nuove norme fiscali, come quella francese, mirano ad imporre un prelievo direttamente sui ricavi, prima che i profitti conseguiti in Francia aggirino le norme eludendole per spostare e/o alloggiare i propri guadagni in giurisdizioni a bassa o zero tassazione.

Quali altri Paesi impongono una digital tax? L’Italia, in primis, ha adottato una tassa simile a quella francese, peraltro già in vigore dal 1° gennaio 2020. Un prelievo che però contiene una clausola ad hoc che ne sterilizza gli effetti in caso e nel momento in cui il gruppo di studio a guida OCSE riuscisse a definire e a far accettare una nuova forma minima di tassazione globale da applicare non soltanto alle multinazionali del web ma all’intero orizzonte delle grandi aziende con vocazione globale. Anche il governo turco, a sorpresa, ha dato il suo via libera ad una tassa digitale del 7,5%. Più costosa di quella francese. La legislazione introdotta nel Regno Unito imporrebbe un prelievo minore, del 2%, sui ricavi dei motori di ricerca, piattaforme di social-media e per compravendite online, sempre a condizione che tali guadagni derivino, come valore, direttamente dagli utenti che risiedono e/o operano nel Regno Unito. Ma anche Austria, Spagna e Belgio stanno prendendo in considerazione o hanno già predisposto prelievi digitali.

Gli  USA hanno reagito alla tassa francese sostenendo che discrimina le società americane, ed hanno proposto tariffe per circa 2,4 miliardi di dollari ai prodotti francesi e hanno aperto indagini sulle tasse digitali proposte in Austria, Italia e Turchia. Gli Stati Uniti, infatti, fanno affidamento sulla Sezione 301 del U.S. Trade Act del 1974, lo stesso strumento già utilizzato dal presidente Donald Trump per imporre tariffe sui beni cinesi a causa di presunti furti di proprietà intellettuale. Al riguardo, come noto, è intervenuta anche l’Unione europea con un serrato e riservato scambio di note tra Commissari, Presidenti e la Casa Bianca, con risultati, per il momento, piuttosto modesti. Neanche la dichiarazione francese di abbassare l’entità del prelievo sui colossi del Web se gli Stati Uniti e altri fossero d’accordo su uno sforzo globale per un approccio fiscale uniforme da coordinarsi e realizzarsi sotto la guida e la gestione dell’OCSE, sembra aver stemperato gli animi.

Ma in cosa consistono le imposte proposte, ovvero, in cosa consiste la digital tax. Essa parte dal presupposto che poiché sono spesso domiciliate in altri Paesi, comprese giurisdizioni a bassa tassazione come l’Irlanda o le Bermuda, e trasferiscono denaro attraverso le frontiere, le aziende che vendono online possono facilmente evitare di pagare le tasse in Paesi in cui, tuttavia, effettuano vendite significative.

In particolare, la Francia sostiene che la struttura dell’economia globale si è spostata su un nuovo modello basato sui dati, sui numeri, sui profili individuali, una cloud-economy che ha reso arcaici i sistemi fiscali del XX secolo. Non è quindi una casualità il fatto che, secondo i dati 2018 della Commissione europea, le società tecnologiche globali paghino un’aliquota fiscale media del 9,5% rispetto al 23,2% per le grandi imprese tradizionali, senza parlare delle piccole e medie aziende ancor più penalizzate da questa rivoluzione “silenziosa”, almeno fino a qualche anno or sono.

E’ evidente che la base logica della tassazione che, invece, è avanzata in queste brevi righe parte da una differente presunzione: si tratta infatti di tassare le società Internet in proporzione alla loro “presenza digitale” nel Paese rispetto al resto del mondo e il prelievo non deriva dal fatto che conseguono profitto, ma dal fatto che effettuano un “furto” di dati all’utente, furto in quanto non è da questo né conosciuto ne misurabile. Il riequilibrio può pertanto avvenire, nelle more di una più corretta sistemazione delle posizioni in campo, attraverso un prelievo dello Stato che “ripari” al furto, distribuendo il prelievo a beneficio dei cittadini.
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[1]Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie

[2]Questa scelta è stata avallata, rectius promossa, dallo stesso Governo, che, sin dai primi DPCM e successivamente con il Decreto ‘Cura Italia’, ha indicato il lavoro agile come modalità ordinaria di esecuzione della prestazione lavorativa, laddove in concreto compatibile.

[3]A ricordare un primo passaggio dell’utente sul sito visitato sono i c.d. cookie sono brevi file di testo che vengono scaricati sul dispositivo dell’Utente quando si visita un sito web. Ad ogni visita successiva i cookie sono reinviati al sito web che li ha originati (cookie di prime parti) o a un altro sito che li riconosce (cookie di terze parti). I cookie sono utili perché consentono a un sito web di riconoscere il dispositivo dell’Utente. Essi hanno diverse finalità come, per esempio, consentire di navigare efficientemente tra le pagine, ricordare i siti preferiti e, in generale, migliorare l’esperienza di navigazione. In base alla funzione e alla finalità di utilizzo, i cookie possono suddividersi in cookie tecnici, cookie di profilazione, cookie di terze parti. I cookie tecnici hanno lo scopo di abilitare funzioni senza le quali non sarebbe possibile utilizzare appieno il SITO. Questi cookie permettono il funzionamento di procedure basate su più passaggi (più pagine successive, come ad esempio una richiesta di contatto), di tenere traccia delle scelte dell’utente sui contenuti del SITO da visualizzare e le funzionalità da attivare o disattivare. Un cookie di questo tipo viene inoltre utilizzato per memorizzare la decisione dell’utente sull’utilizzo di cookie sul nostro sito web. I cookie essenziali non possono essere disabilitati utilizzando le funzioni del Sito. Rientrano nell’ambito dei cookie tecnici anche quelli utilizzati per analizzare statisticamente gli accessi o le visite al sito, detti anche “analytics”, che perseguono esclusivamente scopi statistici e raccolgono informazioni in forma aggregata senza possibilità di risalire all’identificazione del singolo utente. I cookie analytics possono essere anche cookie di terze parti (Google Analytics) per i quali si rimanda, per un ulteriore approfondimento, alla privacy del rispettivo titolare. I cookie di profilazione hanno lo scopo di migliorare l’esperienza utente del SITO suggerendo contenuti affini alle preferenze manifestate dall’utente durante la navigazione, in base ai contenuti visualizzati ed altri parametri di comportamento. L’utente può decidere di disattivare l’utilizzo dei singoli cookie del SITO tramite le apposite opzioni del proprio browser. In questo caso alcune funzionalità del SITO potrebbero non essere disponibili. Il SITO utilizza alcune funzionalità esterne o contiene alcuni link esterni con lo scopo di migliorare l’integrazione con siti di terze parti di comune utilizzo e la socialità del SITO stesso (es. pulsanti di condivisione di Facebook, Google, ecc.). Tali funzionalità e link potrebbero determinare l’utilizzo di cookie di terze parti per i quali si rimanda alla privacy specifica pubblicata sui singoli siti. E’ possibile disattivare i cookie utilizzando le opzioni messe a disposizione dal proprio browser. Seguono alcuni esempi relativi ai browser più diffusi.

[4]Il problema in genere si pone per i cosiddetti dati pseudonimizzati, ovvero, che, se si dispone delle conoscenze aggiuntive necessarie, possono essere utilizzati anche per indicare una persona di riferimento univoca. Ma in tale ragionamento ciò che si analizza è la raccolta di dati ed il plus valore che genera.

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