(Foto: Luigi Maccotta sullo sfondo della Capitale venezuelana Caracas) –

Nato a Parigi, laureato in Scienze Politiche alla Sapienza di Roma, Luigi Maccotta vanta una lunga carriera diplomatica. E’ stato primo segretario presso le Ambasciate di Tel Aviv e Berna, Consigliere economico-sociale a Tokyo, Primo Consigliere a Washington, Ambasciatore a Caracas e Messico. All’interno del Ministero degli Affari esteri si è occupato spesso di America Latina, ricoprendo importanti ruoli nell’ambito della Direzione Generale per gli Affari economici, tra cui quella di Direttore per i Paesi dell’America Latina e i Caraibi.

Maccotta ammette che tra le sue esperienze più intense figura il periodo trascorso come Ambasciatore in Venezuela dal 2007 al 2010. “Al mio ritorno in Italia”, spiega, “ho continuato a mantenere stretti contatti con la vivace Comunità italiana in Venezuela e anche con influenti personalità locali. Si tratta di una realtà molto complessa che va assolutamente seguita con grande attenzione”.

Ed è proprio quello che si propone di fare questa intervista incentrata sull’ex Presidente Hugo Chavez (uno dei personaggi di maggiore richiamo mediatico negli ultimi anni in America Latina, scomparso nel 2013) e l’attuale sostituto Nicolàs Mauro che governa un Paese in grande difficoltà economica, fortemente caratterizzato politicamente a sinistra.  

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Punto Continenti, in collaborazione con la sede romana dell’Università Internazionale per la Pace (creata dalla Nazioni Unite nel 1980, con sede principale in Costa Rica) e la REARadiotelevisioni Europee Associate, sta eseguendo una serie di indagini e interviste sul ruolo dell’America Latina nella nuova geopolitica mondiale.   Per la realizzazione e diffusione di questa indagine Punto Continente s’avvale della collaborazione esperti di organizzazioni come lIILA (l’Organizzazione Internazionale Italo Latino Americana)Mediatrends America Europa (gestito dal giornalista Roberto Montoya che organizza incontri internazionali di alto livello); il Movimento Tutela Sociale (un Movimento d’opinione internazionale – vedere la pagina Facebook  https://www.facebook.com/groups/508452549970758/); nonché programmi giornalistici, radiofonici e televisivi come Sentir Latino, diretto dal giornalista Luis Flores, che va in onda in Italia (su Radio Mambo e presto su One Tv) e in America Latina. Ma ecco l’intervista.

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Ambasciatore, ma chi era veramente Ugo Chavez sotto il profilo umano e psicologico?

Sicuramente una personalità carismatica, un visionario, un formidabile oratore e instancabile comunicatore. Chavez era capace di parlare anche 8 ore di fila nel suo programma televisivo Alo’ Presidente. Inoltre, era un seduttore nei rapporti interpersonali: ti ammaliava e ipnotizzava con le parole: finito il colloquio ti risvegliavi e domandavi “ma come ha fatto a raggirarmi in tal modo?”.  Lettore onnivoro ed insonne con una cultura vasta (di filosofia politica) ma confusa e disordinata da autodidatta, è stato capace capace di definire  Gesù Cristo il primo socialista pur ammettendo candidamente di non aver mai letto Marx.

Fondamentalmente Chavez è sempre rimasto un militare di formazione, ossia, bravo nel dare ordine e riceverli, non disdegnando di farsi chiamare “mi comandante”. Insomma, un populista e caudillo di sinistra, tipico prodotto dell’America latina dei golpe militari, generalmente di destra, autoritario che non tollerava sconfitte come accade allorché il suo referendum per cambiare la costituzione e prorogare il mandato presidenziale venne respinto nel dicembre 2007:  definì la vittoria degli oppositori con un’espressione analoga a quella data da Cambronne agli inglesi (generale francese che il 18 giugno 1815 a Waterloo dopo la sconfitta di Napoleone dichiarò: Merde! La guardia muore ma non si arrende – n.d.r.)    

Mentre la maggior parte dei militari latinoamericani ha spesso nutrito decise simpatie per la destra, Chavez si è sempre presentato come uomo di sinistra. È stato opportunismo o vera fede politica?

Probabilmente le due cose insieme, ma credo che Chavez si sentisse sinceramente predestinato ed investito di una missione. Il suo consigliere diplomatico, il franco-messicano Maximilien Arvelaiz, con il quale ero riuscito a costruire un rapporto facilitato dalla comune matrice culturale francofona, mi confidò una volta che Chavez gli chiedeva in continuazione fino a notte fonda schede di letture su temi di politica internazionale e di sociologia. Lui li studiava senza soste. A un certo punto si è sentito veramente se non la reincarnazione di Simon Bolivar, colui a cui il destino storico demandava il compito di completare l’opera, il sogno di Simon Bolivar.

Convivevano in Chavez un certo infantilismo, scaltrezza e furbizia. Certamente ha usato abilmente l’arma del petrolio ma non era interessato più di tanto alla modernizzazione del Paese. A modo suo il chavismo ha generato una sorta di orgoglio nazionale, rivalsa di un Paese che era stato considerato ai tempi della colonizzazione spagnola una sorta di retrovia della Colombia nel quale conveniva investire poco. Lo dimostrerebbe l’assenza di chiese barocche od opere architettoniche di valore che verranno erette solo dopo negli anni 60, quando Caracas svilupperà un’edilizia residenziale pregiata. 

Chavez ha fatto, appunto, un costante richiamo al grande condottiero Simon Bolivar che nell’ottocento sognava, tra le altre cose, l’unificazione di tutta l’America del Sud. Un sogno probabilmente irrealizzabile. Ma fino a che punto la coltivazione di questo mito ha aiutato Chavez a conquistare il potere?

Io credo che la via al potere per Chavez sia stata spianata dagli errori, dalle carenze, dal cattivo governo dei predecessori  esponenti di Copei (Partito Socialdemocratico) e AD (Azione Democratica) che si alternavano al governo, i quali in fin dei conti rappresentavano e curavano gli interessi di una minoranza, qualche centinaio di migliaia di elettori privilegiati, trascurando ed ignorando i bisogni dei restanti 27 milioni di sfavoriti. Questo non poteva certamente durare in eterno.

Più che il sogno di Bolivar poté  il petrolio e le iniziative come Petrocaribe (un’alleanza petrolifera di 18 Stati membri dei Caraibi – n.d.r.), tese a comprare i favori dei paesi caraibici. Il Venezuela con Chavez era diventato una petrocrazia e l’escremento del diavolo, come lo aveva definito un Ministro del petrolio, Perez Alfonso: serviva a corrompere e comprare consenso dentro e fuori piuttosto che per reinvestire in programmi socioeconomici sostenibili. 

Il mito Chavez ha anche sedotto una certa sinistra europea, terzomondista e alla ricerca di modelli alternativi al liberismo anglo sassone: una sinistra attratta dallo slogan “socialismo del siglo XXI” e prona a leggere negli esperimenti di Chavez, Morales e Correa una sorta di continuazione e rilancio dei romantici e tragici tentativi di Allende e Che Guevara. Tentativi spesso grigi e privi del necessario rigore e che s’ispiravano al socialismo reale di stampo sovietico, fallito e crollato: un socialismo magico in grado di coniugare indigenismo, madre natura,  ribellione, movimentismo, rifiuto del modello capitalista e liberista. Certamente le iniziative dell’epoca, come la nascita di organismi quali UNASUR, Banco del Sur, Telesur, Alleanza bolivariana, tendevano a favorire un processo di integrazione regionale, reso più agevole dalla lingua comune, allo scopo anche di allentare la presa nordamericana esercitata attraverso l’OSA, l’Organizzazione degli Stati Americani. 

Con il successore di Chavez, l’attuale Presidente Nicolas Maduro, il Paese ha avuto un crollo dal punto di vista economico e sociale che ha costretto, tra l’altro, 5 milioni di venezuelani ad emigrare. Sono state più le condizioni internazionali, tipo, le pesanti sanzioni economiche, a determinare questa nuova realtà o l’incapacità gestionale di Maduro, che a suo tempo era stato indicato proprio da Chavez come suo successore?

Io credo che con Maduro si è passati dall’autoritarismo alla dittatura vera e propria. Maduro a quanto sembra non era il favorito di Chavez per succedergli ma gli sarebbe stato imposto dai cubani, maestri della sopravvivenza di regime, ben inseriti in tutti i cardini amministrativi del paese, praticamente da loro commissariato. Il fallimento economico del Venezuela a mio parere non è dovuto alle sanzioni ma alla cattiva gestione, incurante delle regole della macroeconomia ed improntata a politiche ideologiche, dogmatiche, con qualche eccezione come nel Carabobo (uno dei 25 Stati del Venezuela -n.d.r.), governato dall’italo-venezuelano Rafael Lacava, chavista formatosi negli Stati Uniti: personaggio al quale si è interessato recentemente la stampa americana, apprezzandone alcune misure locali.

Da quando è scoppiato il conflitto Russia-Ucraina gli Stati Uniti hanno ripreso i contatti con il Venezuela e altri Paesi latinoamericani. Come vede il futuro dei rapporti tra il Venezuela e gli Stati Uniti?

Difficile fare previsioni, diciamo che gli Stati Uniti non hanno mai smesso di raffinare il petrolio venezuelano. Certamente i toni incauti ed avventati di Trump che minacciò l’invasione del Paese hanno lasciato, meno male, il posto ad una impostazione da realpolitik. Sono stati messi al bando  i tentativi, peraltro maldestri, di regime change (cambio di regime) anche se i rapporti rimangono tiepidi e strettamente dettati dall’interesse contingente. Certamente continuano i contatti con i settori dell’opposizione, peraltro indebolita dalle divisioni e rivalità  interne, ma non vedo all’orizzonte grandi cambiamenti.  

Parlando di opposizione, nel 2019 si è cercato di creare un’alternativa a Maduro facendo giurare come Presidente ad interim il Presidente dell’Assemblea generale, Juan Guaidò. Una autoproclamazione riconosciuta da numerosi Paesi, tra cui Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna, Brasile, ecc. Ultimamente sembra che questa soluzione si sia abbastanza affievolita. È così?

Io credo che ci vorrebbe una vera e propria sollevazione popolare per far cadere il regime. Non è successo quando la situazione socioeconomica era drammatica (inflazione alle stelle, penuria di generi alimentari e non solo) e il Paese si trovava sull’orlo della bancarotta.  Ora la situazione è leggermente migliorata, pertanto i rischi di cacciata dalle leve del comando della cricca post-chavista sono diminuiti.

Maduro se non veramente forte è perlomeno saldo. Il chavismo più che sulla repressione dell’opposizione puntava sulla sua espulsione, rendendole la vita difficile e pericolosa, lasciando mano libero alla delinquenza comune. Chavez d’altronde predicava che “ser rico es malo” giustificando odio sociale e rapine proletarie. Neppure l’Unione Europea può fare molto per migliorare la situazione, oltre a mantenere canali di dialogo in grado di tutelare le sue Comunità e gli investimenti significativi in termini infrastrutturali (ferrovie) ed energetici. L’ENI, a questo proposito, è bene allenata ad operare in contesti non democratici: come ebbe a dirmi con ironia l’allora Amministratore Delegato Paolo Scaroni “il petrolio non si estrae mica in Svizzera”.   

A proposito di tutela delle nostre Comunità, di questa terribile crisi ne ha sofferto anche la grande comunità italiana in Venezuela. Ci può descrivere le condizioni e le privazioni subite dai nostri connazionali?

L’ampia Comunità italiana (stimata in circa un milione complessivamente) ha subito pressioni e minacce come d’altronde  quelle spagnole e portoghesi, soprattutto quando in Italia vi erano governi di destra considerati ostili alle istanze “rivoluzionarie”. La massima preoccupazione era per la sicurezza intesa in senso sia fisico che di tutela dei diritti di proprietà.

Lo stesso Chavez mostrava però di apprezzare il ruolo e il contributo delle aziende italiane allo sviluppo del Venezuela, soprattutto nei settori infrastrutturali.  Ma di mal digeriva le critiche aperte e coalizzate al suo operato.  Gli piaceva ricordare sempre di avere avuto vicini di origine italiana a Sabaneta dove era nato, e addirittura di avere vissuto un flirt da piccolo con una bambina italiana. Non tutta la comunità italiana era, comunque, antichavista.  Da ricordare, poi, alcuni italo-venezuelani che hanno fatto carriera, come l’Ammiraglio Manilla, che era stato ministro della Difesa, o Jorge Giordani responsabile della Pianificazione, il quale però si era distaccato dalle sue radici italiane al punto da far finta di non parlare la nostra lingua che viceversa conosceva benissimo avendo studiato presso l’Università di Bologna.

In Venezuela esiste una rete di circa 10-12 Club italo disseminati su tutto il territorio. Sono strutture culturali-ricreative dotate di piscina, campi da tennis, calcio, cinema, ristoranti, centri di italianità dove incontrarsi e ritrovarsi per alimentare e coltivare relazioni.  Alcuni centri erano a rischio espropriazione e comunque visti come esempi di privilegi sociali ed economici, mentre in fondo erano solo il frutto di duro lavoro da parte degli espatriati. In ogni caso, i fuoriusciti di origine italiana non hanno guardato verso Roma ma si sono trasferiti negli USA (Florida) o in Spagna. Quelli rimasti in Venezuela si sono adattati. Del resto, se ben usato,  il denaro apre le porte e garantisce, se non pace e tranquillità, almeno una certa incolumità.

Negli ultimi anni molti giornali venezuelani hanno chiuso, sono passati sotto il controllo dello Stato o sono diventati filogovernativi. Su questo fronte ci sono delle aperture?

Ho avuto l’onore di frequentare Teodoro Petkoff, guerrigliero, politico, giornalista, Direttore per quasi 20 anni del quotidiano Tal Cual da lui fondato, molto critico da sinistra del chavismo nel quale intravedeva più elementi di fascismo (la violenza e il disprezzo per la dissidenza) che non di socialismo. Petkoff considerava che il chavismo avesse conservato alcune forme di democrazia (elezioni, referendum) ma ne impediva il funzionamento e limitava fortemente la libertà di espressione.  Sotto Maduro questa tendenza si è aggravata ma la società  civile ha ugualmente modi per informarsi e lottare anche sotto il giogo di regimi totalitari.

Ultimamente la posizione di Maduro sembra, comunque, rafforzarsi e il suo indice di gradimento superare quello di Guaidò, grazie anche a una serie di riforme economiche, tra cui l’eliminazione del controllo dei prezzi, la cancellazione di alcune restrizioni sui cambi e incentivi agli investimenti privati. A questo punto Lei come vede il futuro del Paese?

Lo vedo come un lungo periodo di oscurantismo, difficilmente i chavisti che si sono notevolmente arricchiti durante gli ultimi 24 anni molleranno facilmente la presa. Chissà forse emergerà dalle file del madurismo una generazione meglio preparata in grado di sfruttare le enormi risorse materiali del Paese, causa attualmente di atteggiamenti redditieri ma che potrebbero invece un giorno orientarsi a fini di sviluppo e benessere della popolazione. 

Molti italiani che vivono all’estero ritengono che l’Italia non sappia approfittare adeguatamente della presenza di milioni di connazionali all’estero, soprattutto in Sud America. La prego, senza fare una difesa d’ufficio, come valuta la politica estera italiana da questo punto di vista?

Verissimo credo non si sia superato l’approccio della vecchia politica migratoria e non si sia saputo coinvolgere le notevoli energie e risorse umane che rappresentano gli italici dando loro un senso di missione comune a favore di un grande progetto paese. Neppure il voto all’estero ha cambiato molto perché  in fin dei conti i candidati continuano ad occuparsi di come funzionano i servizi consolari (un passaporto italiano è una carta per entrare in Europa): un impegno sacrosanto, per carità, ma che il CGIE (Consiglio Generale degli Italiani all’Estero) e i Comites (Comitati degli italiani) già assolvono.  

In parte la ricerca di una missione italiana lo aveva fatto l’Ambasciatore Paolo Fulci con la sua battaglia sulla riforma del Consiglio di Sicurezza dell’ONU coltivando, ad esempio, i rapporti con la NIAF, la National Italian American Foundation, che ha lo scopo di promuovere la storia, la lingua e la cultura dell’Italia negli Stati Uniti e di fare da punto di riferimento per i circa 20 milioni di statunitensi che vantano origini italiane.

Vi sono vari motivi dell’insoddisfazione degli italiani all’estero: un certo risentimento da parte di chi ricorda i racconti degli avi costretti per povertà a lasciare la madrepatria. Ora che i discendenti hanno avuto successo grazie a duro lavoro, ingegno e talento e sono ben integrati, guardano all’Italia con sufficienza. Hanno, cioè, una visione distorta dell’Italia contemporanea, che conoscono spesso solo come turisti, andando in pellegrinaggio nella piccola patria per incontrare i parenti. Manca, invece, una più approfondita conoscenza dei punti di forza dell’Italia moderna, delle sue dinamiche e potenzialità anche per quanto riguarda gli investimenti nel nostro Paese.

E poi, confessiamolo, permane il tradizionale individualismo che ci caratterizza che sarà pure un luogo comune ma esiste. Comunque, la politica estera e un maggiore coinvolgimento delle nostre collettività ed eccellenze non può essere un obiettivo perseguito solo dalla Farnesina, ma deve coinvolgere l’intero Governo italiano mediante un approccio pianificato e non episodico, creativo e, concediamolo, anche dotato di qualche geniale improvvisazione (capacità che certamente non ci manca).

Intervista realizzata il 22 Settembre 2022.