(Foto: Sergio Mora)

Hernan Sergio Mora, giornalista professionista argentino, membro dell’Associazione della Stampa Estera in Italia con sede a Roma, ha lavorato con diversi prestigiosi organi d’informazione spagnoli e latinoamericani. Dal 2000 al 2005 è stato corrispondente aggiunto del giornale spagnolo El País; per 10 anni ha lavorato presso l’agenzia Zenit, diventando caporedattore dell’edizione spagnola. Inoltre, è stato responsabile del giornale ExpresoLatino per le edizioni spagnole in Italia e Inghilterra. Mora ha anche collaborato con la BBC mundo, ItaliaOggi, La Stampa, ABC e altri mezzi informativi. Attualmente lavora con l’agenzia ANS e partecipa alle attività di Mediatrends America Europa, che organizza a Roma importi incontri Internazionali.

Sul piano professionale, Mora da molti anni si occupa di sviluppo economico in America Latina e di tutte le sue contraddizioni. Ed è proprio su questo argomento specifico che abbiamo ritenuto interessante intervistarlo.

Nota della redazione – 

Punto Continenti, in collaborazione con la sede romana di UNIPACE e la REARadiotelevisioni Europee Associate, sta eseguendo una serie di indagini e interviste sul ruolo dell’America Latina nella nuova geopolitica mondiale. Per la realizzazione e diffusione di questa indagine Punto Continente s’avvale della collaborazione di esperti di organizzazioni come lIILA (l’Organizzazione Internazionale Italo Latino-americana); Mediatrends America Europa (gestito dal giornalista Roberto Montoya che organizza incontri internazionali di alto livello); il Movimento Tutela Sociale (un Movimento d’opinione internazionale – vedere la pagina Facebook:  https://www.facebook.com/groups/508452549970758/); nonché di programmi giornalistici, radiofonici e televisivi come Sentir Latino, diretto dal giornalista boliviano Luis Flores, che va in onda in Italia (su Radio Mambo e presto su One Tv a Milano) e in America Latina.

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È impressione generale che l’America Latina si trovi continuamente in bilico tra protezionismo e liberismo. E’ così?  

L’argomento è molto complesso e l’America Latina è molto estesa. Più che indicare Paesi o Governi, in questa analisi è più opportuno soffermarsi sui modelli che si ripetono in continuazione. Partirei da una frase di Winston Churchill: “Il capitalismo è buono per produrre, il socialismo è buono per distribuire”.

Quando si cerca di capire qual è il sistema economico che ha portato maggiore benessere nel mondo e quindi anche in America Latina, in genere si confrontano Paesi che hanno sistemi economici diversi.  Ma questo non funziona perché non si può paragonare il Messico a Cuba o la Francia alla Cina, dato che i parametri culturali, geografici, economici, sociali e psicologici sono troppo diversi.

Eppure, per chiarire meglio il concetto un confronto specifico occorre farlo.

Beh, un esempio storicamente illuminante è rappresentato dal confronto tra la Germania dell’Ovest e la Germania dell’Est prima della caduta del muro. Qui abbiamo a che fare con lo stesso popolo, la stessa latitudine e un territorio simile. Alla fine della seconda Guerra mondiale, una metà ha adottato il regime capitalista,  l’altra, il socialismo, entrambe divise dalla cortina di ferro.

Dopo più di 40 anni i risultati sono stati chiari. Dalla parte socialista abbiamo assistito a una bassa produzione, uno scoraggiamento generale, la divisione di tutto senza che si innovasse nulla, un’uguaglianza al ribasso e tanta povertà. Sul versante occidentale si è sviluppata un’economia fiorente anche se condita da disuguaglianze profonde. In compenso c’è stato un benessere diffuso, al punto che la Germania occidentale ha avuto la capacità di ricostruire il versante Est una volta caduto il muro di Berlino e dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica. L’esempio Germania conferma la teoria di Churchill.

Si, ma parliamo dell’America Latina. Cosa è successo e cosa sta succedendo?

Da un lato possiamo osservare che dove le multinazionali hanno insediato le loro aziende hanno creato posti di lavoro ambiti da tante persone desiderose di essere assunte grazie al benessere prospettato (ovviamente non parlo delle conseguenze ecologiche). Ebbene, in alcuni settori, come quello minerario o quello petrolifero, molti Paesi non avevano e non hanno ancora gli strumenti per sfruttare queste risorse. Nel caso specifico del petrolio, in alcuni casi non sono neanche in grado di raffinarlo, con la conseguenza che sono costretti a importare i suoi derivati, come la benzina.

Altro dato interessante: una parte significativa della produzione delle multinazionali viene eseguita e completata nei paesi investitori. Del resto, se non fosse così, queste società non avrebbero certamente investito. Dall’altro canto, a causa dei profitti che queste aziende ottengono e che portano all’estero, vengono spesso accusate dai nazionalisti di saccheggiare vari Paesi.

Che c’è di sbagliato in questo ragionamento?

Semplicemente che si dimentica con troppa facilità che se le aziende estere non arrivano con molta probabilità le risorse naturali rimangono sottoterra. E l’esempio non vale solo per le materie prime energetiche. Qualcosa di analogo si è verificato anche con le proprietà agricole, molte delle quali sono state confiscate. Anche in questo caso, una volta rientrati nel possesso delle terre, si è visto che molti contadini non erano preparati a gestirle e, quindi, le terre sono rimaste abbandonate o devastate. Una fine simile è avvenuta anche per le cooperative, tranne quelle composte da piccoli agricoltori privati, che, al contrario, hanno funzionato abbastanza bene.

Quale sbaglio viene compiuto in questi casi dai Governi?

Per impedire che parte della produzione ottenuta grazie agli investimenti di capitali esteri finisca fuori dai confini nazionali,  alcuni Governi latinoamericani hanno deciso di ricorrere alle nazionalizzazioni: ciascuno in un certo momento storico e per particolari tipi di produzione. A volte sono stati erogati degli indennizzi, in altri casi ci si è limitati ad espropriare le aziende. Tutto, ciò, ripeto, ha determinato un fenomeno curioso: dopo un primo periodo di redistribuzione della produzione, col tempo i contadini hanno finito, o sono stati costretti a finire, per mangiarsi i propri buoi. Quindi, tutto fatalmente si è concluso nel nulla.

Di chi la colpa maggiore?

Direi che la maggiore stortura è determinata dall’enorme corruzione attuata da funzionari che accettano contratti svantaggiosi in cambio di bustarelle. Inoltre, c’è il clientelismo dilagante che piazza gli amici nelle strutture pubbliche, senza tenere minimamente conto del grado di competenza.

Tutto ciò porta le aziende nazionalizzate a registrare bassi indici di produttività, un numero spropositato di dipendenti e furti di ogni tipo. È chiaro che con questo andazzo le aziende statali sono destinate a diventare cronicamente deficitarie.

Il numero di esempi che si potrebbero fare è enorme. Essi si ripetono in continuazione nonostante siano di dominio pubblico. Questo fenomeno, è bene ricordarlo, si verifica anche in alcune aziende statali dei Paesi capitalisti. Importante è sottolineare che ovunque la corruzione è quasi sempre la vera causa dei disastri.

Comunque, tornando al nostro discorso iniziale, rimane il fatto che senza produrre ciò che si può distribuire, si riesce ad avere una maggiore uguaglianza ma solo livellando le condizioni di vita verso il basso. Ancora oggi ci sono dei Paesi in cui la produzione è vietata a ogni iniziativa privata, perfino l’allevamento di galline per uso familiare. Dove le code per il cibo sono all’ordine del giorno, l’inflazione distrugge il potere d’acquisto, la moneta si svaluta e il controllo dei prezzi crea un mercato nero per tutti i tipi di prodotti.

Ma ci saranno pure delle differenze, ad esempio, tra l’America Latina e l’Europa. O no?

Certo. Ad aggravare la realtà latino-americana rispetto ai Paesi nordici, c’è il fatto che nei Paesi latino-americani gli interessi personali a qualsiasi livello della società tendono quasi sempre a prevalere sulla ‘cosa pubblica’. E poi ci sono i costanti cambiamenti di indirizzo politico ed economico. In America Latina si passa in continuazione dal protezionismo al liberismo, per poi tornare al  protezionismo, e così via. Il guaio è che ogni sistema ha per abitudine quella di distruggere quel poco di positivo fatto dal governo precedente. Comunque, la cattiva gestione del bilancio pubblico non si limita a questo.

Cioè?

Gravi responsabilità hanno anche i Governi che chiedono con troppa facilità prestiti non produttivi o per investimenti superflui: prestiti che col tempo si trasformano in  pesi sul collo insostenibili. Lo stesso vale anche per gli enti internazionali che concedono questi prestiti pur sapendo che difficilmente potranno essere restituiti. A tutto ciò va aggiunta l’incapacità di dare del valore aggiunto ai prodotti agricoli, oltre a tenere nella dovuta considerazione le nuove sfide come l’informatizzazione, che permette di aumentare la produzione con un numero minore di manodopera. Poi ci gli effetti della globalizzazione che consentano di importare a prezzi stracciati prodotti da altri Paesi.

Riassumendo, qual è la vera morale della favola?

Che i sistemi liberisti sono effettivamente buoni per produrre, e quelli socialisti per distribuire. Tuttavia, se non si produce, cosa si può distribuire? E quando c’è produzione senza distribuzione, aumentano le disuguaglianze e solo pochi finiscono per arricchirsi. Questi pochi ricchi tendono poi a dimenticare facilmente le difficili condizioni in cui settori marginali e crescenti della società sono costrette a vivere. Quello che è certo è che non basta una grande produzione per far entrare più denaro nelle tasche di chi si trova sugli scalini più bassi della società, cosa che invece dovrebbe garantire un corretto sistema liberale. In questo contesto la lotta alla povertà e al malessere sociale diventa ancora più difficile con l’affermazione dei monopoli e il rafforzamento continuo del potere della grande finanza.  

E come si esce da questa situazione?

Per prima cosa occorre introdurre una maggiore trasparenza nell’ambito dell’Amministrazione pubblica se si vuole veramente combattere la corruzione. E poi ogni Governo dovrebbe  necessariamente porsi alcuni quesiti, tipo:

È possibile perfezionare il sistema produttivo in modo da poter migliorare le condizioni di chi è rimasto indietro?

È possibile assistere e sovvenzionare chi è in difficoltà senza strangolare le aziende private?

È possibile avere società miste, con aziende private che vogliono produrre per guadagnare, ma con una partecipazione statale che pensi ai bisogni sociali?

Queste sono tutte sfide e le soluzioni che richiedono analisi molto approfondite e articolate, oltre a un cambiamento radicale della mentalità rispetto alla corruzione: senza questo cambiamento tutto diventa estremamente difficile. A questo punto mi viene quasi spontaneo evocare l‘Economia di Francesco, elaborata dall’attuale pontefice e che s’ispira al santo di Assisi. Un’economia basata su un assioma determinante: occorre puntare decisamente su una maggiore solidarietà, una solidarietà che trascenda i sistemi economici per concentrarsi integralmente sulla necessità di non lasciare nessuno indietro.

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Videoclip del ‘Movimento Tutela Sociale’ vincitore del Premio ‘Musica per il sociale’ promosso dalle Radio e Televisioni della REA (con sottotitolazione in spagnolo)