(Foto: nel riquadro Giuliana Paolucci sullo sfondo di Venezia)

Riportiamo di seguito un’articolata e interessante riflessione compiuta dalla pittrice Giuliana Paolucci, sull’ultima biennale di Venezia, inaugurata il 23 aprile 2022 e chiusa il 27 novembre.

Nell’antefatto del film Miracolo a Milano, ambientato in un mondo magico e fiabesco, Vittorio de Sica, ci presenta la figura  di un’ attempata maestra, interpretata da un’indimenticabile Emma Grammatica, che trova un neonato sotto un cavolo. Diventerà sua madre dal momento in cui decide di prendersene cura e continuerà ad occuparsi di lui  tutta la vita, anche oltre la morte, diventando coprotagonista degli eventi successivi. In una memorabile scena,rientrando  a casa trova il bambino che guarda estatico, affascinato ed impaurito,il rivolo di latte che straripando dal bricco sul fuoco, si è rovesciato sul pavimento. Per tranquillizzarlo si precipita a cercare una scatola, probabilmente quella del presepe, dalla quale estrae alberi e case che colloca ai lati della striscia lattea dando vita ad un vero e proprio paesaggio ed invitando il bambino ad entrarci dentro saltando e ridendo. Tenendolo per mano gli fa notare come sia  grande la terra e come sia possibile trasformare la realtà attraverso la dimensione del gioco e la possibilità incredibile di riconfigurare il cosmo conferendogli una nuova significazione.

In questa sequenza è contenuta la poetica sottesa allo spirito di questa 59° edizione della Biennale d’arte di Venezia. La curatrice, Cecilia Alemani, infatti, ha voluto intitolarla Il latte dei sogni, prendendo spunto da un testo di Leonore Carrington, la scrittrice surrealista che  è stata la compagna di Max Ernst e alla quale la fondazione Peggy Guggenheim, che dello stesso è stata moglie, dedica una grande mostra dal titolo “Surrealismo e la realtà incantata”.

(…) l’artista surrealista, ci dice l’Alemani, descrive un mondo magico nel quale si affacciano continuamente nuove prospettive ed infinite possibilità nel quale la vita viene costantemente reinventata (1)

Quasi cento anni fa i surrealisti hanno tentato di rispondere alla drammaticità dei loro tempi con l’invenzione di una realtà incantata, magica che attinge continuamente alla realtà altra dei sogni, dell’occulto, dell’inconscio. La mostra alla Fondazione Guggenheim la mette bene in evidenza attraverso le fantasie oniriche ed il richiamo alla magia, alla cabala, al significato simbolico ed esoterico del gioco dei tarocchi come nel caso di Victor Brauner e delle artiste surrealiste che hanno vissuto in Messico e si sono ritrovate a lavorare insieme, riproducendo  nella loro creazione artistica rituali magici propri dell’America Latina. In modo analogo la curatrice ha interrogato gli artisti dell’epoca contemporanea  sulla possibilità di trovare soluzioni agli enormi problemi  che disegnano sugli orizzonti futuri ipotesi catastrofiche e scenari distopici, chiedendo  di inventare mondi diversi , altri, in cui non esistano barriere di genere o di nazione, Si ha l’impressione percorrendo gli spazi della Biennale di trovarsi continuamente di fronte a creature ibride che superano i confini del conosciuto e che concorrono a popolare un mondo postmoderno e post umano o cibernetico. Molti gli artisti che immaginano realtà amplificate ed ibridate in cui il mondo vegetale, animale  e robotico si uniscono e concorrono a delineare nuove frontiere ed inimmaginate possibilità.

Il gioco, fra l’altro, è il protagonista  ed il tema che domina il padiglione belga all’interno dei giardini, uno dei più affascinanti. Interamente occupato dai bellissimi video di  Francis Alÿs dai quali i bambini provenienti dai luoghi del mondo più inospitali, per la presenza di situazioni di guerra o di estrema indigenza, offrono allo sguardo del visitatore i rituali e le movenze cicliche dei loro giochi, nelle strade, nelle periferie delle caotiche città in cui vivono, produttori di pantomime e finzioni con poteri creativi e magici.

La musica domina invece l’istallazione creata all’interno del padiglione della Gran Bretagna, che si è aggiudicato il Leone d’oro come migliore padiglione nazionale. In ”Feeling Her Way”, di Sonia Boyce voci e suoni si sovrappongono. Cinque volti di donna dalle voci straordinarie, di differenti età e timbro si rincorrono, si cercano, si fondono. Intensissime. Tutte appartengono alla musica Black che innegabilmente ha rappresentato un filo conduttore, una specie di colonna sonora emotiva per uno sterminato numero di persone,originata dall’identità delle donne di colore britanniche.
Si tratta di 5 artiste pluripremiate di generazioni diverse: Poppy Ajudha, Jacqui Dankworth, Sofia Jernberg, Tanita Tikaram e la compositrice Errollyn Wallen, tutte accomunate da influenze jazz e soul e da voci al di fuori del comune. La video installazione centrale mostra il loro primo incontro, nel corso del quale improvvisano e cantano insieme, indicando l’interazione come possibile strada per l’innovazione, un tema ricorrente nella pratica di Sonia Boyce. I video sono stati girati negli Abbey Road Studios, gli storici studi dove hanno inciso le loro canzoni i Beatles. Anche qui il gioco creativo è il modo dell’artista per inventare il suo personale re incanto del mondo. Il padiglione si configura anche visivamente come un gioco in cui non si rincorrono solo le voci ma anche le immagini, quelle geometriche ed optical della carta da parati che ne ricopre le pareti o delle copertine dei vinili, riproponendo echi e ricombinazioni tra le sequenze dei video che arrivano dai grandi display e i solidi dorati dove il visitatore si può sedere immergendosi in questo riverbero sinestesico di suoni e colori.

Distopie

La musica domina anche il padiglione australiano, ma questa volta con strumentazioni ed amplificazioni elettroniche che alterano il suono e generano dissonanze sparate a volume assordante. Le distorsioni sonore prodotte dalla performance  del musicista Marco Fusinato sono accompagnate da immagini proiettate ad una velocità vertiginosa, pescate casualmente dal mare magnum del web. Incubi ad occhi aperti si alternano a rappacificanti dettagli della storia dell’arte, generando inevitabilmente combinazioni nuove. DESASTRES è  infatti un progetto sperimentale di rumore che sincronizza il suono con l’immagine e catapulta il visitatore spettatore dentro un disastroso futuro distopico e disumanizzato, in cui la bellezza si insinua come un ricordo che viene immediatamente fagocitato e distrutto.

Angosciantissimo anche il padiglione  della Grecia, che nel Oedipus in Search of Colonus utilizza la realtà amplificata. Il visitatore si trova catapultato in un’imminente sciagura che tutti temiamo  e alla quale cerchiamo di non pensare. Nelle prime sequenze del film ci si trova nei sotterranei di un posto sconosciuto dove avvoltoi si avvicinano sempre più minacciosi ed inquietanti.

Il video, di Loukia Alavanou, ripropone una rivisitazione della tragedia greca ambientandola in una situazione contemporanea alla periferia di Atene ma che potrebbe essere ovunque in un futuro immaginato, dove cani randagi e uomini che indossano una maschera abitano uno spazio apocalittico, cosparso di immondizie.

I membri della comunità Rom che recitano, da attori dilettanti, la contemporanea messa in scena del dramma diventano ad un certo punto guerriglieri e minacciano lo sgomento spettatore puntandogli le loro armi.

Inaspettatamente il guerrigliero diventa un cantante pop che si muove in un buio senza coordinate spaziali. Si riacquista il respiro.Il bagliore d’oro delle monete e dei Rolex illumina una scena che cambia ed i suoni allegri della musica conducono  fuori dalla paura degli orizzonti precedenti.

Differenti emozioni suscita invece il rumore – musica del mare che, proiettato a tutto schermo ci abbraccia e ci avvolge con un sussurro che sembra quasi un respiro-musica nel padiglione della Serbia, dove Vladimir Nikolic , nel suo Walking with Water ha invertito il rapporto realtà finzione del quadro. Il mare non è solo la realtà descritta dal quadro-schermo ma è anche ciò che esiste realmente e fisicamente oltre quella parete in modo che lo spettatore non si trovi davanti al quadro ma si percepisca al suo  interno.

I primi spazi dell’Arsenale ci rivelano la  gigantesca scultura Brick House dell’artista statunitense Simone Leigh, che in questa Biennale si è aggiudicata il premio come miglior partecipante. Qui il corpo di una donna africana  diventa archetipo di abitazione evocando immediatamente immagini di protezione  e di cura. L’artista è la prima donna afroamericana a rappresentare gli Stati Uniti alla Biennale e le sue statue colossali  occupano anche lo spazio del padiglione USA all’interno dei Giardini. Colpiscono gli sgargianti colori che ovunque occhieggiano alle pareti delle prime sale alle corderie dove dominano  le splendide collografie dell’afrocubana BelkisAyon, morta suicida a trentadue anni, che raccontano, attraverso una serie di rimandi alla mitologia di Abakua, l’inquietudine rappresentata attraverso animali simbolici e presenti nella tradizione mitico religiosa della società abakuan.

Si percepisce che rispetto alle Biennali precedenti si sta consumando qualcosa di nuovo. E’ come se la pittura si fosse riappropriata dello spazio, imponendosi prepotentemente allo sguardo dei visitatori.

Pittura ma anche racconti che utilizzano varie tecniche e diversi materiali, dalle fibre tessili alle stagnole, dalle perline alle pailette, alle conchiglie per colorare uno spazio raccontando una storia, dove i confini tra arte ed artigianato si fanno deboli e si ha l’impressione sia veramente difficile distinguere tra l’una e l’altro o meglio è come se il secondo in diversi casi diventasse un evento artistico,

Nelle pitture tessili  di Ficre Ghebreyesus e nei suoi coloratissimi dipinti si fondono come echi presenti le tradizioni ed i colori dei mondi, quello statunitense e quello africano,dove  è vissuto. O ancora  nella storia raccontata nei giganteschi patchworks all’interno del padiglione polacco, dove l’artista rom MałgorzataMirga-Tas ha raccontato i momenti epici del suo popolo, utilizzando la stessa struttura narrativa degli affreschi di Palazzo Schifanoia e rendendo il padiglione uno dei più riusciti di questa edizione.

I tappeti ottenuti con gli inserti di diverse stoffe colorate generano straordinari effetti pittorici a volte inaspettatamente tridimensionali attingendo sia  ad un immaginario collettivo, nel racconto  dell’epopea del suo popolo, ma anche ad un archivio personale ed intimo, collegato ad uno degli esempi più interessanti del nostro rinascimento realizzato nel palazzo ferrarese.

 O ancora nelle arpilleras, gli arazzi monumentali di Violeta Parra.

Si percepisce insieme a quello che potrebbe sembrare politically correct, come la  partecipazione così esuberante  delle artiste donne o degli artisti appartenenti a realtà coloniali, un continuo slittamento temporale dalla realtà attuale e contemporanea  a personalità femminili che nei primi decenni del ‘900 hanno dovuto lottare per affermare la loro ricerca artistica, in un mondo prevalentemente maschile, o sono riuscite ad emergere probabilmente anche perché mogli o compagne di artisti come nel caso di Sophie Taeuber Arp o Lee Krasner o le stesse Leonor Carrington e Dorotea Tanning. Per questo, in quella che viene definita una capsula del tempo, all’Arsenale si trovano le gigantografie delle rivoluzionarie protagoniste degli anni venti e trenta del novecento ed un interessante repertorio costituito da foto, video, bozzetti e costumi.

Rimbomba poi con un silenzio assordante, al centro degli spazi dei giardini, la chiusura del Padiglione russo ricordando il momento drammatico che stiamo vivendo,evocando e richiamando gli artisti surrealisti che hanno dovuto fare i conti con una guerra in atto, tanto che molti di loro, in fuga da un’ Europa in guerra si sono ritrovati in un Messico particolarmente recettivo per quel che riguarda la sensibilità artistica come Dorothea Tanning, Remedios Varo o la Leonore Carrington.

Poesia

Al termine del percorso dell’Arsenale, il gigantesco budello che ospita le corderie, le bombarde e tutti gli immensi spazi che hanno visto nascere e crescere la grandezza della Serenissima ci conduce, al braccio di laguna dove appaiono le gaggiandre con la loro grazia antica. Qui ci si trova davanti all’ingresso di una vecchia fabbrica dismessa. E’ l’ingresso del padiglione Italia. Ci si mette in fila per entrare ad uno ad uno, in piccoli numeri. Si accede ad un ingresso, accolti da vecchie strumentazioni dismesse.  Una scala metallica ci porta nell’appartamento ormai disabitato del custode dove affiora la memoria di un tempo che non è più, dalle impronte dei quadri alla rete nuda del letto, uno dei pochi superstiti di una vita che è stata. Da lì,dall’alto, una vetrata ci permette di scorgere l’interno di una fabbrica dove poi si potrà camminare, tra le file delle macchine da cucire, vecchie Singer in disuso.

Desolazione e abbandono pervadono l’atmosfera. Il percorso poi  porta davanti ad una scena notturna. E’ buio e lo spazio è delimitato ai lati dall’ intelaiatura di due finestroni anche questi appartenenti ad uno scenario industriale. L’acqua scura arriva a lambire la riva. Ma lì si compie il miracolo. Si scorgono nel nero inchiostro notturno delle luci, prima fioche ma intensissime, le lucciole al termine della notte, a bucare l’oscurità facendo presagire una speranza.
Scriveva Pasolini: Darei tutta la Montedison per una lucciola ed infatti già il poeticissimo titolo: Storia della Notte e Destino delle Comete, dell’immersiva opera di Gian Maria Tosatti avrebbe potuto far intuire il potere salvifico della poesia che si rivela , inaspettato solo nella magnifica scena finale.

Ancora bagliori luminosi, spruzzi di luce nel padiglione maltese dove si ha quasi l’impressione di assistere ad un rito religioso nell’opera Diplomazija Astuta, che riesce ad evocare i chiaroscuri di Caravaggio. Piccole gocce di acciaio fuso cadono, incandescenti , nelle vasche di acqua scura. Anche qui son comete, stelle cadenti  che squarciano la notte.

Il miracolo,poi si compie fino in fondo e si amplifica con la gigantesca installazione di Kiefer a Palazzo Ducale, studiata dall’artista come opera site specific per la celebrazione del 1600° anniversario della fondazione di Venezia.

La frase che ispira l’opera è del filosofo veneziano Andrea Emo e recita: “Questi scritti, quando verranno bruciati, daranno finalmente un po’ di luce”.
Il lavoro, che ricopre interamente la sala dello scrutinio, prende avvio da un incendio. Una combustione. Tutto è ricoperto da un pulviscolo cinereo. Pali come croci bruciate in un’atmosfera che è quella di un campo dopo la fine del mondo, carico di neve. Eppure le luci  si diffondono come folgori, fuochi d’artificio illuminano lo scenario plumbeo cosparso di segni di morte. Argenti, ori, rossi. Nel cielo e nell’acqua. La grandezza della Serenissima viene evocata con tutto lo splendore dell’oro.

Pur non facendo parte del progetto Biennale e del latte di sogni, l’enorme lavoro di Kiefer si trova perfettamente in linea con la kermesse artistica presente nella città lagunare e ne rappresenta lo spirito più autentico.

Giuliana Paolucci