(Foto: da sinistra Ruggero de Zuani ricevuto dal Presidente Ciampi; l’arrivo sull’Everest; la sfilata sui Fori Imperiali).

Quest’anno si festeggia il cinquantesimo anniversario della prima spedizione italiana sull’Everest: la vetta più alta del mondo (8.848, 86 metri) della catena dell’Himalaya ai confini tra la Cina e il Nepal. Il 5 e 7 maggio del 1973, la spedizione italiana, diretta dall’alpinista  Guido Monzino e composta in buona parte da militari di Forze e Corpi armati dello Stato, faceva sventolare la bandiera italiana sul tetto del mondo, portata da due cordate di quattro alpinisti.

Su gentile concessione della rivista ‘Il Basco Azzurro’ dell’Associazione Nazionale Aviazione  dell’Esercito, rappresentata dal Presidente Generale Sergio Buono, abbiamo ritenuto interessante pubblicare la descrizione integrale dell’impresa fatta a suo tempo dal Col. Ruggero de Zuani che ha partecipato alla missione. Si tratta di un vero documento storico.

Di Ruggero de Zuani

Il 5 e 7 maggio, la spedizione italiana, diretta da Guido Monzino e composta in buona parte da militari di Forze e Corpi armati dello Stato, faceva sventolare sugli 8.848 m. del tetto del mondo il tricolore, portato da due cordate di quattro alpinisti. Faceva parte della spedizione un Nucleo di due elicotteri AB 205 dell’Aviazione dell’Esercito che partecipò attivamente alla vittoria, pur avendo raggiunto “solamente” il campo due alla quota di 6500 m. Infatti, la conquista dell’Everest è tradizionalmente simboleggiata da una piramide, al cui vertice ci sono gli alpinisti che arrivano a calpestare materialmente la vetta, ma nel cui corpo si trovano tutti coloro che, unitamente agli sherpa, hanno dato il loro prezioso apporto. E fra questi, c’erano anche cinque piloti e sei specialisti dell’ALE! Oggigiorno si parla di Everest solo quando si verificano nuovi record (salita dal campo base alla vetta in 8 ore e dieci minuti, scalatori sempre più giovani che arrivano in vetta) o vengono diffuse notizie strane (effettuazione di test per il Viagra) o accadono tragedie (come quella del mese di maggio 1996 nella quale persero la vita 9 alpinisti di 4 spedizioni commerciali). Questa moda di snobbare, se non addirittura denigrare, il “tetto del mondo” indicandolo come una montagna non interessante dal punto di vista alpinistico, è avvenuta anche per colpa di Dick Bass, un ricco texano cinquantacinquenne con scarsa esperienza di arrampicate, che fu “portato” il 30 aprile 1985 sulla cima dell’Everest. Con questa impresa egli era il primo uomo ad aver scalato le sette sorelle (da non confondere con le più importanti compagnie petrolifere; sono, invece, le vette più alte dei sette continenti).

 Ciò diede avvio alla creazione di agenzie turistiche che consentivano il raggiungimento della cima a chiunque fosse disposto a pagare  (nel 1996 – 65.000 dollari, escluso l’equipaggiamento ed il biglietto aereo fino al Nepal).

Ma nel 1972, quando prese avvio la nostra spedizione, si era ancora nella fase eroica della conquista: dal maggio 1953 solo sei spedizioni avevano raggiunto l’obiettivo e soltanto 28 alpinisti avevano posato i piedi sulla vetta. Per un alpinista essere incluso in una spedizione all’Everest era un simbolo di eccellenza e mai avrebbe rinunciato all’occasione. Figuriamoci per un pilota di elicottero chiamato a cimentarsi in un ambiente inviolato dal punto di vista aeronautico!

Incontro con Monzino

Quando alla fine di ottobre del 1972 ricevetti l’ordine dal Comandante della Scuola Militare Alpina, Generale Massimo Mola di Larissé, di recarmi il 3 novembre a Milano per illustrare a Guido Monzino le possibilità di impiego degli AB 205 all’interno della Spedizione italiana all’Everest, non fui eccessivamente sorpreso. Dalla metà di ottobre, infatti, si stava svolgendo presso la Scuola, la selezione dei candidati a formare il gruppo alpinistico e i colleghi che si interessavano della futura impresa mi avevano accennato ad un possibile mio coinvolgimento per l’inserimento di elicotteri nell’organico della spedizione. Per quanto scettico (si avvicinava il termine del mio comando del RAL SMALP per la promozione a fine anno a Colonnello), la curiosità mi aveva portato comunque ad approfondire le scarse conoscenze sul tetto del mondo ed a ricercare, in particolare, precedenti utilizzi di aeromobili nell’ambito delle spedizioni himalayane. In materia il “foraggio” era alquanto scarso e non vi erano accenni all’impiego di elicotteri; mi colpì, invece, la partecipazione di un Pilatus Porter alla spedizione svizzera del 1960 al Dhaulagiri I (m 8222 – penultimo ottomila conquistato). Avevo visto il velivolo all’opera sulle montagne attorno a Bolzano in occasione dei voli di valutazione, per l’eventuale sua introduzione nella linea di volo dell’ALE, effettuati nel 1963 da un nucleo di piloti (i Maggiori Alvino, Bucalossi e Gentile). L’aereo1, costruito dalla Pilatus Flugzeugwerke di Lucerna, aveva avuto il battesimo dell’aria nel maggio 1959, dimostrando subito straordinarie caratteristiche “montanare”. L’alpinista Max Eiselin, capo della spedizione al Dhaulagiri, intuì l’eccezionale contributo che il velivolo avrebbe potuto fornire agli alpinisti e, facendo anche leva sull’aspetto promozionale, convinse la casa costruttrice a mettergli a disposizione il prototipo.

Affidato ai piloti Ernst Saxer ed Emil Wick, l’aereo, battezzato «Yeti», svolse un’attività intensa ma sfortunata. Infatti, ebbe due incidenti: il primo, in decollo dall’aeroporto di Pokhara, per lo scoppio della testa di un cilindro, conclusosi con un atterraggio di fortuna. Il secondo, in decollo dal campo base, per il distacco della cloche che rese l’aereo, ingovernabile con gravi danni.

L’incontro con il grande esploratore fu emozionante e scioccante nello stesso tempo. Dopo aver ascoltato le aspettative riposte nell’impiego degli elicotteri – agevolare il raggiungimento dell’obiettivo e creare una cornice di maggior sicurezza al gruppo alpinistico – illustrai le prestazioni degli aeromobili facendo ben presente che i manuali di volo non prendevano in considerazione atterraggi alle quote himalayane. Tuttavia, considerando l’attività svolta nella zona del Monte Bianco (il massimo a nostra disposizione!) e l’incapacità della macchina a leggere le tabelle, mi dichiarai moderatamente ottimista per l’eventuale atterraggio ai 5300 m del campo base.

Segnalai, però, altre perplessità di carattere politico e logistico che avrebbero potuto limitare il volo degli elicotteri. C’era da tenere presente il regime di cessate il fuoco instaurato fra India e Pakistan a seguito del conflitto del 1971, che aveva portato alla secessione del Pakistan Orientale con la creazione del Bangladesh. Non si doveva, inoltre, sottovalutare che l’Everest era sulla linea di confine fra la sospettosa Cina e il Nepal. Infine, sotto il profilo logistico, si sarebbero potute presentare difficoltà nel reperimento in loco di ricambi e, soprattutto, del carburante.

Una partecipazione non prevista

Mi sembrava che il quadro rappresentato, per quanto obiettivo, fosse tutt’altro che ottimistico ed ero quasi certo di essere liquidato con i rituali ringraziamenti. Monzino, invece, dopo essersi stupito che io non fossi in possesso del passaporto con visto d’entrata in Nepal e del certificato sanitario internazionale aggiornato con le vaccinazioni contro tutte le più strane ed improbabili malattie, con estrema semplicità mi invitò a prendere il primo aereo per Kathmandu (Capitale del regno himalayano del Nepal) per esaminare i problemi che avrei dovuto affrontare nei successivi mesi quale direttore del nucleo elicotteri. Fu così che mi trovai arruolato nella spedizione. Grande era la soddisfazione per un pilota di montagna cui si presentava l’opportunità, quasi unica, di volare attorno all’Everest, ma enorme la preoccupazione di dover dire a mia moglie ed a mio figlio che per alcuni mesi sarei finito dall’altra parte del mondo a tu per tu con gli yak e con gli yeti!

Preparativi e partecipanti

Da quel momento gli avvenimenti presero un ritmo frenetico. Dopo una riunione tenutasi l’11 novembre allo SME, fu deciso, che di lì a pochi giorni una delegazione composta dal Col. AMI Costantino Francese (per la parte telecomunicazioni), dal Cap. spec. ALE Gian Claudio Gallesi (per la parte logistica aeronautica) e da me (per la parte operativa), si sarebbe recata in Nepal per cercare di risolvere i rispettivi problemi. Nel frattempo era stato selezionato il personale che avrebbe costituito il nucleo, 5 piloti e 6 specialisti, provenienti da RAL SMALP (piloti De Zuani, Pecoraro e Paludi; specialista Bucci), CAALE (piloti Landucci, e Brunamonti, assegnato in un secondo tempo), I REUG (specialista Ferro), IV REUG (specialista Malerba) e 3° RRALE (specialisti Gallesi, Maiu e Cristallo). Dal 23 novembre al 1 dicembre i tre ufficiali designati effettuarono la prevista ricognizione in Nepal, ottenendo le autorizzazioni ad effettuare i voli fra Katmandu e l’Everest ed a realizzare i collegamenti radio con la madrepatria e quelli interni della spedizione, trovando inoltre la soluzione per l’acquisto del carburante per gli elicotteri.

Fra il 3 e il 10 dicembre la spedizione si radunò a Valtournanche per creare l’amalgama fra le varie componenti. Al termine il personale del Nucleo elicotteri si trasferì ad Aosta, ad eccezione di alcuni specialisti che agli ordini del Cap. Gallesi curarono, presso il 3° RRALE di Orio al Serio, il condizionamento dei materiali aeronautici.

Il 17 dicembre furono ritirati i due elicotteri EI-325 e EI-326, reimmatricolati civili con le marche I-EIAA ed I- EIAB, che svolsero un’intensa attività di volo per la messa a punto. Il 2 gennaio 1973 gli aeromobili, dopo l’ispezione delle 25 ore, rientrarono a Cascina Costa per l’eliminazione di alcuni difetti. A causa del persistente nebbione che gravava sulla pianura padana, la Ditta effettuò il trasporto degli elicotteri, caricati su rimorchi, a Cameri, aeroporto da cui sarebbero decollati gli aerei per il gran- de balzo di quasi 11.000 km.

Si parte

Il 15 gennaio la prima aliquota della spedizione (24 persone, fra cui il Capo Monzino e il nucleo al completo) partì con tre C130 della 46ª Aerobrigata sui quali erano stati caricati gli elicotteri e 6 tonnellate di materiali aeronautici; raggiunse Kathmandu il giorno seguente, dopo una sosta notturna a Teheran ed un atterraggio intermedio a Delhi.

Seguì una snervante pantomina, durata una settimana, fra me e il Direttore dell’aeroporto che rimandava di giorno in giorno (maybe, tomorrow). l’autorizzazione al riassemblaggio degli elicotteri. Finalmente il 2 febbraio fu effettuata la prima missione, trasportando a Lukla (piccola striscia di atterraggio a 2804 m di quota nella valle del Kumbu, dove avremmo installato la nostra base) Monzino e i suoi principali collaboratori per una prima conoscenza del teatro d’operazioni. A partire dal giorno seguente, si effettuò fino al 27 febbraio un ponte aereo, unitamente ad alcuni velivoli della RNCA6, per trasferire a Lukla (da dove avrebbero proseguito a piedi) alpinisti e materiali.

Ogni giorno gli elicotteri compivano due viaggi di andata e ritorno, della durata di circa due ore l’uno, trasportando o 600 kg di materiali o 6 alpinisti con il rispettivo equipaggiamento. Alla fine di febbraio, mentre già era in corso il trekking verso il campo base, il nucleo si trasferì al completo alla nostra base di Lukla, nel frattempo “decongestionata” del gruppo alpinistico, dei circa 2000 portatori e della mole di materiali accantonati in precedenza. Contemporaneamente all’inizio del movimento della carovana verso il campo base, cominciò la nostra attività di supporto trasportando i materiali più delicati e ingombranti. Giornalmente i due elicotteri seguivano il cammino della spedizione atterrando in tutte le zone di sosta della carovana. Nello stesso tempo svolgevano anche piccoli, ma apprezzatissimi, servizi a favore delle popolazioni locali, come il trasporto medicinali all’ospedale di Khumde, il recapito posta o l’evacuazione malati. Il famoso giornalista Egisto Corradi, inviato speciale del Corriere della Sera battezzò i nostri voli “L’accelerato del Kumbu”.

Le varie tappe.

Di seguito alcune notizie sulle località dove atterrammo più frequentemente:

– Namche Bazar (3440 m), capitale degli sherpa,

– Tengpoche (3867 m), sede dell’omonimo monastero, massimo centro lamaista della zona, dove il 2 marzo fu organizzata una festa per il compleanno del Capo Spedizione, con la partecipazione straordinaria della “band” (lunghi corni e cimbali) dei monaci. La spedizione  sostò alcuni giorni per le avverse condizioni meteo;

– Pheriche (4243 m), ove costituimmo una base avanzata con fusti di carburante e pompa per rifornimento. La fortissima nevicata ritardò la marcia degli alpinisti e provocò un leggero danno a un elicottero: per il peso della neve, infatti, la pala del rotore produsse un taglio alla trave di coda, riparata con una ”lattina di birra”. Da questo punto, per i voli verso l’alto, gli equipaggi utilizzavano le bombole di ossigeno e gli elicotteri venivano alleggeriti delle due porte posteriori, per consentire il trasporto di un maggior carico utile;

– Lobuche (4930 m), qui, per la prima volta, posammo i pattini ad una quota superiore alla massima europea;

– Campo base (5350 m), ove atterrammo senza grosse difficoltà e dove in pratica si esauriva l’impegno da me assunto con Monzino. Fu la destinazione quasi quotidiana dei nostri voli.             

Messaggio di Monzino

Si sa che l’appetito vien mangiando! Considerando l’eccellente rendimento delle macchine e le preoccupazioni del capo spedizione per il superamento dell’Ice fall (la nobilissima seraccata terminale del Circo occidentale, il lungo ghiacciaio che conduce alla cima), dopo aver constatato con un atterraggio di prova a 5965 m che l’elicottero era sempre efficientissimo, decisi di proporre al Capo spedizione di tentare un atterraggio al campo due (6500m). La proposta fu ben accolta e felicemente realizzata. Monzino comunicò la notizia al Sottocapo di SME con il seguente messaggio:

«In data 1° aprile tutte le attività dei componenti e degli sherpa da Campo Base al campo Uno et Due sono state bloccate per consentire agli elicotteri di perlustrare il percorso al fine di ricercare un eventuale punto di atterraggio nella prossimità del Campo Due e che nei prossimi giorni avrà ruolo di Campo Base avanzato ed accoglierà quindi buona parte dei componenti ed una cinquantina di sherpa – Alt – Le operazioni elicotteri hanno avuto buon esito ed è stato effettuato un atterraggio sperimentale a quota 6400 m circa – Alt – Altri voli sono stati effettuati conseguentemente con lo scopo di dimostrare varie possibilità di intervento in caso di emergenza – Alt – Spettacolare et ardimentosa l’opera dei piloti e degli equipaggi che pure si sono mossi nei limiti di prudenza peraltro adoperandosi in una esercitazione eccezionale del quale va data loro ampio merito e riconoscimento per cui invito a voler fare pervenire sue congratulazioni menzionando lunga fatica già svolta fino a questo recente raggiungimento record tecnico et morale – Alt »

Piccoli inconvenienti

Al campo Due atterrarono tutti i piloti del Nucleo, sbarcando numerosi alpinisti, che in tal modo evitavano l’attraversamento del pericoloso Ice Fall, ed evacuando alcuni malati. Un notevole sforzo fu compiuto, anche, per il trasporto di circa 6 tonnellate di materiali (bombole d’ossigeno, viveri freschi, attrezzature alpinistiche) che, suddivisi in carichi di circa 200 kg, furono recapitati con atterraggi (oggetti fragili) o con lanci effettuati a quota e velocità basse. Purtroppo il 17 aprile l’elicottero I-EIAA (con piloti Landucci e Pecoraro e specialista Cristallo) nel corso di una missione di rifornimento, per un imprevisto e forte vento di caduta impattava violentemente sul ghiacciaio9. Piloti incolumi, specialista con leggera frattura alla spalla destra. L’incidente avveniva proprio nel momento in cui la spedizione stava per attaccare il gigante e sarebbe stato quindi, necessario disporre di tutte le forze a disposizione. Inoltre, l’I-EIAB era prossimo all’ispezione delle 300 ore, per cui fu necessario centellinare l’attività. Lo SME dispose subito per l’approntamento e l’invio di un nuovo elicottero (EI-328 ribattezzato con il nome d’arte di I-EIAC) che tuttavia giunse in Nepal solo il 7 maggio, quando stavano per iniziare le operazioni di ripiegamento. In questo fase ci fu una simpatica parentesi: il trasporto a Tengpoche per l’annuale visita, del Lama di Rongbuk10, esule in Nepal a seguito dell’invasione cinese del Tibet. L’atterraggio sul piazzale del monastero fu il più impegnativo fra tutti quelli già effettuati perché gli abitanti della zona lasciavano ben poco spazio per la manovra. Fra la folla spiccavano le telecamere della BBC, i cui operatori avevano dichiarato che non si sarebbero mossi di lì se non dopo aver documentato il notevole gap tecnologico di un Lama passato dalla portantina all’elicottero.

Non appena il rotore si fermò, una processione di fedeli, alla cui testa era l’illustre ospite e nella quale furono inseriti, a forza, anche i piloti, si diresse all’interno del monastero.

Qui il Lama prese posto su un alto scranno, con alla destra i due piloti, e tutti ricevettero l’omaggio dei fedeli che si inchinavano davanti a loro, mettendo attorno al collo le kate11. Fu poi ordinato, come al conclave, l’extra omnes che non riguardava però i malcapitati trattenuti al pranzo di gala, a base di te tibetano12 e riso scotto nel latte e senza sale.

Ritorno a casa

Il 23 maggio, dopo aver ammainato a Lukla le bandiere nepalese ed italiana, alle 10 del mattino atterravamo per l’ultima volta sull’aeroporto di Kathmandu. Due giorni dopo gli elicotteri venivano imbarcati sui C-130 con destinazione Orio al Serio.

A Roma fummo ricevuti in l’udienza speciale di Sua Santità Paolo VI e dal Presidente Giovanni Leone che conferì a tutti i membri della Spedizione le onorificenze al merito della Repubblica italiana. Il 2 giugno eravamo a Roma per partecipare alla rivista per la festa della Repubblica. La nostra bella avventura era terminata!

Avevamo lasciato il Nepal dopo quattro mesi e mezzo trascorsi a contatto delle montagne più alte della terra. Avevamo condiviso con gli alpinisti le fatiche, le preoccupazioni e la gioia della vittoria. Avevamo utilizzato il generoso 205 al limite delle sue prestazioni e, forse, anche un poco oltre. Eravamo riusciti ad atterrare a quote che nessuno, fino allora, aveva toccato con un elicottero. Avevamo vissuto in un paese ancora arretrato, specialmente nelle zone lontane dalla capitale, dove il progresso avanzava alla velocità dei portatori.

La vita semplice e la religiosità di quella gente mi aveva affascinato; l’aria stessa aveva un profumo particolare e il rientro in Italia mi creò, non so se anche ai colleghi, qualche difficoltà di reinserimento nel vivere comune. Ora il Nepal è cambiato, si è modernizzato. Ho visto un filmato di Lukla ed ho stentato a riconoscerla. La pista, che allora era in terra battuta ora è asfaltata ed esiste una torre controllo, segno di un’intensa attività di aeromobili. Le misere abitazioni costruite con il fango sono state ora sostituite da confortevoli palazzine in muratura. Gli elicotteri arrivano regolarmente al campo base, dove fra l’altro il CNR italiano ha costruito un laboratorio (la piramide) con tanto di stazione meteorologica che fornisce le previsioni sia per l’ascesa al gigante sia per il volo.

Forse qualcuno sta già progettando una funivia, con cabine pressurizzate, fra il campo base e la vetta!!! E ancora, incredibile a dirsi, ci sono mamme che lasciano il figlioletto al campo base, affidato alla nurse, e si fanno portare in vetta dalle guide delle agenzie turistiche, pretendendo di trasmettere in tempo reale la loro foto dal tetto del mondo! E mi fermo qui. Per fortuna, il “nostro Everest” è diverso!