Come campione è stato un mito. Come uomo di sport uno degli esempi migliori. Parliamo di uno dei più grandi pugili della storia: Nino Benvenuti, campione olimpico a Roma nel 1960 (quando vinse non solo la medaglia d’oro ma anche la prestigiosa coppa Val Barker, destinata al pugile tecnicamente migliore del torneo, soffiandola a un certo mediomassimo di nome Cassius Clay) e campione mondiale dei pesi medi, categoria professionisti,  dal 1967 al 1970. Tra i suoi leggendari combattimenti figurano anche i tre incontri per il titolo negli Stati Uniti con Emile Griffith. Il primo, nel 1967, venne addirittura  considerato l’incontro dell’anno (dall’Italia arrivarono ben sei charter di tifosi). Altro incontro dell’anno fu la sfida con Carlos Monzon, il pugile argentino che gli tolse il titolo. In seguito la International Boxing Hall of Fame e la World Boxing Hall of Fame lo inseriranno nella lista dei più grandi pugili di ogni tempo.

 

Ebbene, con tutti e tre i pugili citati (e qui entriamo nel lato umano), Benvenuti è rimasto sempre in ottimi rapporti, cercando di stare concretamente a loro vicino nei momenti più difficili dal punto di vista della salute (Cassius Clay), finanziario (Griffith) e scelte di vita (Monzon). Emblematiche, a queste proposito, sono state le sue visite in carcere al campione argentino, condannato per l’uccisione della moglie e morto in un tragico incidente stradale dove correva a 140 chilometri all’ora sulla corsia di sorpasso. Ma di questo suo impegno sul piano umano e sociale Benvenuti, nato a Isola d’Istra (oggi Slovenia) e attualmente commentatore sportivo in Rai (nel 1971 è entrato nella redazione di Radio Rai, diventando pubblicista), non ama soffermarsi. Preferisce parlare di sport e dei mali che in questo momento affliggono le pratiche sportive a tutti i livelli.

 

E’ vero che molti atleti italiani, anche tra coloro che hanno avuto un certo successo, oggi si trovano in gravissime condizioni sociali?

Conosco diversi casi ma preferiscono non fare nomi, sia per una questione di rispetto che di privacy. Di molti, poi, che magari sono stati dei bravi atleti ma non dei campionissimi o non hanno gareggiato in sport popolari, non serve neanche a fare il nome: di loro non si ricorda più nessuno. Se poi lei mi chiede se ritenga giusto che lo Stato debba aiutarli rispondo che lo Stato dovrebbe impedire a chiunque di finire alla deriva. Se mi preoccupo in particolare degli sportivi che stanno male è solo perché questo è il mio mondo e non perché considero gli atleti una categoria che debba essere privilegiata.

Secondo lei i grandi campioni del presente potrebbero fare qualcosa di più, soprattutto nei riguardi dei giovani, per elevare la cultura sportiva di un popolo?

Sicuramente ma qui bisogna entrare nella psicologia del grande campione. Purtroppo quando guadagni tanti soldi e sei famoso, gradualmente sei portato ad estraniarti dalla realtà circostante. E’ come se entrassi in una palla di vetro. Diventi insensibile. A quel punto la differenza la fa se hai dei veri amici. Io ho avuto Bruno Amaduzzi, mio manager e, soprattutto, un sincero amico. Ammetto  con la massima sincerità che senza Amaduzzi probabilmente anch’io sarei entrato nella palla di vetro. Ma questo l’ho capito solo molti anni dopo.

 

Per tornare sull’argomento, non v’è dubbio che i grandi campioni potrebbero fare tantissimo. Ma dovrebbero anche essere assistiti e incoraggiati a farlo dai dirigenti e dalle federazioni. In molti casi ci vorrebbe anche un’assistenza psicologia. Purtroppo, di tutto ciò non si vede quasi niente. L’amara verità è che alla stragrande maggioranza dei dirigenti il campione interessa solo finché vince e fa guadagnare a molti. Dopodiché può anche essere scaricato senza pietà.

Cosa prova un grandissimo campione del passato quando oggi in continuazione sente parlare di violenza negli stadi, corruzione, scommesse, partite truccate?

Grande amarezza. Soprattutto quando sento che noti campioni non s’accontentato più di guadagnare in maniera sproporzionata ma si lasciano, forse per una sconfinata ingordigia, corrompere o coinvolgere dalle scommesse clandestine. Un fenomeno estremamente pericoloso e che rischia di uccidere lo sport, che invece è una cosa bellissima. Quando poi mi si obietta che la violenza e la corruzione ci sono sempre stati, in ogni epoca e attività,  rispondo che in parte ciò può anche essere vero ma quello che è certo è che la condanna sociale e morale si è pericolosamente attenuata. In passato il baro non veniva quasi mai scambiato per un semplice furbo.

 

In un ipotetico nuovo Stato sociale quale dovrebbe essere il primo provvedimento da assumere per fare nuovamente dello sport una disciplina utile non solo a preservare la salute fisica ma anche quella mentale e spirituale?

La prima cosa da intraprendere è fare dello sport una materia di studio obbligatoria. Bisogna cominciare dalla scuola. E quando parlo di studiare lo sport non intendo la storia dei campioni ma la storia della cultura sportiva. I ragazzi debbono capire che lo sport agonistico è una cosa completamente diversa, riservata a pochi eletti. La maggioranza deve vedere lo sport come un fantastico momento di socializzazione e di sano divertimento. In quest’opera un sostanziale contributo lo debbono dare, naturalmente, anche i genitori, che hanno il compito di insegnare ai figli che vincere è importante ma non è tutto. A proposito, quanto è triste vedere ai bordi dei campi alcuni genitori aizzare i propri ragazzi a vincere ad ogni costo. Ripeto, per raggiungere questo risultato bisogna fare dello sport una materia di studio obbligatoria sin dalle prime classi. Questo è quello che mi aspetto da un ipotetico nuovo Stato sociale.

 

NotaDa vedere anche il video con Benvenuti: https://www.youtube.com/watch?v=s1Qtk2FKCUA&feature=youtu.be