Stefano Schembri

Di Stefano Schembri

L’ultima campagna elettorale per  la presidenza degli Stati Uniti d’America, svoltasi nell’ottobre del 2012,  ha visto contendersi nella corsa alla Casa Bianca il presidente uscente, il democratico Barack Hussein Obama e l’ex governatore del Massachusetts, il repubblicano Willard Mitt Romney.  Si è trattato di una sfida appassionante come lo sono quasi tutti i dibattiti presidenziali americani. In passato forse lo scontro più avvincente si è svolto il 26 settembre del 1960 (che ha inchiodato davanti alla Tv ben 70 milioni di americani) tra il senatore fotogenico e vincitore John Kennedy e Richard Nixon. In Italia sono stati pochi i duelli tra i leaders politici (in genere chi sta in vantaggio cerca di evitarli per non correre il rischio di compromettere tutto) anche se sono rimasti nella memoria collettiva gli scontri televisivi tra Fini e Rutelli del 1993, per diventare sindaco di Roma, e tra Silvio Berlusconi e Romano Prodi (1994 e 1996) per la Presidenza del Consiglio dei Ministri.

 

La lezione che arriva dagli Stati Uniti è che se per i cittadini hanno ovviamente una grande rilevanza le differenti visioni politiche in campo fiscale, economico, sanitario, politica estera o istruzione, non vanno mai trascurate una serie di sfaccettature e strategie di marketing suggerite dagli esperti dei partiti e dai consulenti per l’immagine. Tutti i candidati sanno bene quanti dei cosiddetti voti degli ‘indecisi’ possano essere conquistati anche da fattori non direttamente politici, ed è per questo che vengono investiti fiumi di denaro non solo in manifesti, spot televisivi ecc. ecc., ma soprattutto in ricerche e strategie di marketing (abbigliamento, parole chiavi, slogan elettorali, loghi ecc. ecc.).

 

Non stupisce, dunque, che le presidenziali del 2012 negli Stati Uniti siano state le più costose della storia. Secondo il Center for Responsive Politics, un’organizzazione no profit, apartitica, che calcola i costi e le spese della politica, il duello Barack Obama e Mitt Romney ha mobilitato oltre 6 miliardi di dollari.

 

Detto ciò, non v’è dubbio che il  fattore umano rimane pur sempre un elemento fondamentale. Prendiamo ancora come esempio le ultime elezioni presidenziali americana. Per molto tempo i consensi per lo sfidante Romney risultavano  decisamente al di sotto di quelli di Obama, anche a causa di una serie di gaffe commesse dal leader repubblicano (la più macroscopica fu quella durante una cena di raccolta fondi a porte chiuse in cui accusava il 47% degli americani di essere dipendente dal governo, “sentendosi vittima senza pagare le tasse” e ammettendo che non è certo suo compito preoccuparsi di questa gente). Tuttavia il dibattito tenutosi alla University of Denver in Colorado, il 3 ottobre, capovolse in un sol colpo i favori dei cittadini americani, portando momentaneamente Romney in vantaggio.

 

Ma quali elementi, all’apparenza meno evidenti, permisero all’ex governatore governatore del Massachusetts guadagnare così tanti consensi in solo un’ora e mezza di dibattito?

 

E’ chiaro che vi sono stati altri fattori a influenzare il pubblico davanti alla TV, considerando che le diverse visioni su come governare il paese da parte dei due candidati erano note anche prima del dibattito (esclusa qualche modifica nelle rispettive strategie, non però così grande da cambiare a tal punto le carte in tavola).

 

Secondo gli esperti di marketing la schiacciante vittoria di Romney nel dibattito di Denver è stata ottenuta più che per i temi esposti, per il suo modo di esporli e per il cosiddetto body language. Un atteggiamento dominante, con postura dritta, testa alta, sguardo intenso verso le telecamere, può essere simbolizzato anche nel rosso acceso della sua cravatta e nella sua grande spilla con la bandiera americana portata sulla giacca. Obama, di contraltare ha mantenuto un comportamento pacato se non addirittura dimesso, mostrandosi spesso a testa bassa e schiena curva, ed è stato paragonato alla sua cravatta blu opaco e alla sua spilletta minuta sulla giacca.

 

Cravatta e spilletta, infatti, sono due dei pochissimi fattori su cui può variare l’abbigliamento degli aspiranti presidenti americani, e non è un caso che nel corso del secondo dibattito presidenziale, tenutosi il 16 ottobre alla Hofstra University di Hempstead, Obama si sia preso la sua piccola rivincita, imparando dagli errori. A un atteggiamento più attivo ed esuberante ‘alla Romney’, ha accompagnato una cravatta rossa, che ha contribuito a dargli quel tocco di spavalderia che gli era mancato nel primo dibattito, avendo la meglio, secondo il parere degli statistici, o quantomeno pareggiando, con un Romney che, ironia della sorte, questa volta indossava una cravatta blu (dati alla mano non sembrerebbe neanche una assurdità l’eventualità secondo cui gli staff dei due siano messi d’accordo nell’indossare una volta per uno la cravatta rossa).

 

Il terzo ed ultimo dibattito, che si è tenuto il 22 ottobre in Florida, si è incentrato sulla politica estera, un argomento che vedeva Obama avvantaggiato per l’esperienza maturata nei suoi 4 anni al governo. L’atteggiamento del presidente è dunque sembrato sicuro di sé, serio e talvolta aggressivo, sulla scia del dibattito precedente. La sua sicurezza si è notata nel momento in cui con un velo di ironia ha schernito la visione militare antiquata del rivale che criticava i tagli alla Difesa e la diminuzione della Navy (la più piccola dal 1916) rispondendo “se è per questo abbiamo anche meno cavalli e baionette del 1916”.  A detta dei sondaggisti questo dibattito gli permise di avere la meglio su un Romney parso più nervoso da una serie di indicatori corporali (sudorazione, balbettii, smorfie del viso). L’ex governatore del Massachusetts ha parzialmente abbandonato il suo atteggiamento spavaldo dei dibattiti precedenti, riconoscendo per la prima volta alcuni punti positivi a Obama (come la cattura di Bin Laden), e mostrando un atteggiamento più moderato che contemplava un futuro accordo con la Cina, e il ricorso alle armi in medio oriente come extrema ratio. Per ricondurre anche questo dibattito all’abbigliamento, sembra curioso ma la cravatta di Romney sembrava, sempre secondo i criteri già analizzati precedentemente, unire i suoi classici toni fieri e sorrisi sfrontati (colore rosso di base) a quelli più moderati e prudenti (bande orizzontali blu).

 

Certo, sarebbe molto riduttivo ipotizzare che sia stato il colore della cravatta a far vincere Obama. Tuttavia, insieme alle visioni politiche ed economiche dei due candidati hanno sicuramente inciso anche le strategie di comunicazione. Ad esempio, gli slogan (il Forward di Obama, che ha fatto seguito al celebre Yes We Can del 2008, ed il Believe In America di Romney) e le parole chiave ripetute più frequentemente (taxes da Obama e jobs da Romney) hanno sicuramente avuto la loro importanza. Parliamo di fattori che a prima vista neanche notiamo però sono curati da uno stuolo di studiosi e ricercatori di mercato che alla fine possono fare la differenza, soprattutto nell’ambito degli ‘indecisi’.