Foto: L'Avana. Nel riquadro Alessandro Zarlatti  Riceviamo e volentieri pubblichiamo un commento spassoso dello scrittore italiano Alessandro Zarlatti residente a Cuba su come in questa suggestiva isola caraibica è stato seguito il recente campionato del mondo di calcio. Nella foto Alessandro Zarlatti, sullo sfondo la capitale L’Avana.

Di Alessandro Zarlatti 

Seguire i mondiali di calcio di Brasile 2014 da Cuba è stato un po’ come seguire un allunaggio da Spinaceto, quartiere periferico di Roma. Che c’è di male? Non lo so, qualcosa di male c’è ma adesso non mi viene in mente. Comunque ciò che mi tormenta di più è questa distanza da tutto. Dall’evento, ovviamente, ma anche da tutti quei riferimenti personali, quelle sicurezze, che in caso di  mondiale senti necessarie, quasi vitali.   Un mondiale è un evento mediatico per miliardi di persone, un evento sostanzialmente virtuale, poco distante da una simulazione alla Playstation, perciò, a meno che tu non sia il cognato di Neymar, stai facendo, nè più nè meno, quello che sta facendo il resto dell’umanità. Seguirlo da lontano.

 

Però, provo a spiegarmi, trovo malinconici quei cubani che finita, ad esempio, Brasile-Cile, sono usciti per strada con una bandiera carioca a festeggiare. A festeggiare cosa? Boh. A sventolare quella bandiera davanti a chi? Parla uno che per la finale di coppa Italia del 2013 si è trovato a seguire la diretta all’hotel Habana Libre indossando la maglietta di Damiano Tommasi (archeologia) e a condividere oscenità con un ceffo mai più rivisto.  E con una coda mortifera e depressa davanti ad una dozzina di birre.   Comunque, se c’è un elemento che invidio al cubano fruitore di futból è l’ingenuità.

 

Decenni di campionato italiano hanno creato un utente medio del bel paese simile ad un funzionario della Stasi. Intasato di dietrologia, di complottismo, incline a ricostruire trame e combine che risalgono a Ciro Menotti, esperto di doping ed antidoping più di Ben Johnson, in tecniche di guerriglia e, of course, master in economia applicata al football business. Insomma, quando mi ritrovo a fare i miei rilievi velenosi (e avvelenati) con un cubano resto esterrefatto e deluso. “Quello al novantesimo corre ancora come fosse in motorino”; “la tecnica più raffinata per pilotare le partite non è sui gol annullati o sui rigori ma sui falli a centrocampo, facci caso…”; “…è tutto un discorso tra squadre Adidas e squadre Nike…”

 

Quando lancio certe affermazioni uguali ad esche succulente che un altro italiano azzannerebbe immediatamente come uno scorfano affamato, un cubano, invece, le accoglie con educazione, seguendo alla lettera il manuale del buon ospite, ma, in ultima analisi, come un morbo incomprensibile e da trattare con l’Amuchina. Materia eminentemente psichiatrica. Bizzarrie. Cineserie. Io resto lì, senza  benzina. Senza sponde.

 

A guardare lo stesso monitor ma una realtà completamente diversa dalla sua. Inconciliabile. Lontana. Lui vede Neymar, il grande Messico, il sogno dei “cafeteros”, gli elefanti della Costa d’Avorio. E sventola bandiere a caso con la gioia nel cuore, con amore sincero per questo fenomeno meraviglioso che è il futból. Io m’incattivisco su un’astuzia arbitrale, guardo Blatter e Platini come i piloti delle torri gemelle, considero certe prodezze tanto celebrate come il semplice prodotto di un cocktail sfacciato di ormoni, anfetamine, e Gatorade.   Troppo lontani. Irrimediabilmente lontani siamo.

 

Come Mastroianni nell’ultima sequenza della Dolce Vita. Ci salutiamo da lontano. Da due sponde diverse. Ma mi tengo la mia malattia. Mi tengo la mia perizia da serial killer. La monomania da pubblico ministero del Processo di Biscardi. Non ho scelta. Ho perso l’innocenza. La sua innocenza. In fondo non chiedo molto. Non chiedo i miei abituali compagni di mondiale accanto. Mi basterebbe il ceffo di quel Roma-Lazio ed esorcizzare insieme a lui una sconfitta, tracciando scenari da guerra fredda infinita,  nascondendo vicendevolmente la nostra distanza dall’allegria.