Roberto Spagnuolo

 

Di Varo De Maria

Romano, classe 1969, due figli, laureato in economia e commercio e giurisprudenza, Roberto Spagnuolo per dieci anni si è occupato nell’analisi dei processi aziendali e personalizzazione del sistema informatico. Dopo aver implementato un nuovo software gestionale per l’Alitalia, per sette anni si è occupato di consulenza e formazione per grandi enti pubblici, come Tim, Poste Italiane ed Enel. Nel 2008 è entrato nella Corte dei Conti come funzionario analista, presso le Sezioni Riunite in sede di Controllo (sede Roma), per collaborare alla preparazione della Relazione al Parlamento sul Rendiconto generale dello Stato; inoltre è membro del Nucleo Tecnico sul Costo del Lavoro pubblico a supporto sia della certificazione economico-finanziaria dei CCNL dei dipendenti pubblici, sia del referto annuale al Parlamento sul Costo del lavoro pubblico. Attualmente viene considerato uno dei grandi esperti in Italia di telelavoro, sia dal punto di vista economico che giuridico. Ed è in questa veste che lo abbiamo intervistato.

 

Cosa s’intende esattamente per telelavoro?

 

È piuttosto difficile incasellare un fenomeno multiforme come il telelavoro. Manca una definizione univoca visto il necessario approccio pluridisciplinare ch’esso implica, pertanto ogni branca ne ha costruita una più o meno strutturata. Per Jack Nilles, a cui si riconosce il conio del termine telework negli anni ’70,  era “ogni forma di sostituzione degli spostamenti di lavoro con tecnologie dell’informazione”. Al tempo, in California, il problema erano i trasporti a causa dello shock petrolifero. Oggi una definizione più idonea, dal punto di vista organizzativo, dovrebbe essere anche la più generica possibile visto la capacità camaleontica delle tecnologie della comunicazione e dell’informazione: ogni modalità di esecuzione di un’attività lavorativa svolta in qualsiasi momento da una qualsiasi sede esterna (fissa o mobile) alla sede aziendale, mediante l’uso, anche discontinuo, della telematica.

 

Il telelavoro in Europa è stato introdotto nel 2002 mentre in Italia per il settore privato la disciplina del telelavoro è stata regolamentata dall’accordo interconfederale del 9 giugno 2004. A dieci anni di distanza che giudizio e quali sono i punti positivi e negativi di questo accordo?

 

Il telelavoro, organizzativamente, era già introdotto in Europa ben prima del 2002, ma le forze sociali si sono rese conto più tardi del valore e dell’impatto che poteva avere per i lavoratori come vera strategia occupazionale. Il 2004 è stato fondamentale per la tutela diretta del telelavoro in Italia se si pensa che da principio, negli anni ’70, veniva addirittura ricompreso nella medesima disciplina del lavoro a domicilio.   L’ambizione degli accordi era modernizzare l’organizzazione del lavoro e conciliare vita lavorativa e vita sociale, ma la lettura del fenomeno ancora lo interpreta come accessorio al lavoro tradizionale, piuttosto che elemento costitutivo di una nuova modalità e mentalità lavorativa. Il beneficio dell’accordo è stato piuttosto in termini di garanzia: i telelavoratori devono essere considerati a tutti gli effetti alla stregua degli altri, per diritti e tutele. Tuttavia ciò rappresenta anche il limite di lettura del fenomeno, è difficile seguire e disciplinare lavoratori che la diffusione della telematica segmenta sino a renderne difficoltosa l’aggregazione degli interessi identitari.

 

E’ possibile quantificare i vantaggi del telelavoro sul piano occupazionale, mobilità delle persone e stress lavorativo?

 

È difficile limitarsi ad una visione quantitativa perché non mancano politiche labour saving che sfruttano gli incrementi di produttività ch’esso comporta. Le attività telelavorabili sono sostanzialmente di due tipi: quelle a basso valore professionale, ripetitive e facilmente standardizzabili nelle procedure operative, dall’altro, le attività ad alto valore aggiunto professionale e tecnico, le cui procedure esecutive sono piuttosto personalizzate e pertanto difficilmente controllabili in itinere, ma lo sono nel valore finale della prestazione su cui sono misurate.   Nel primo caso il telelavoro, per obiettivi di costo, porta presumibilmente un calo occupazionale, la mera delocalizzazione dell’attività ne è un esempio, nel secondo caso i servizi professionali ad imprese e famiglie hanno un nuovo canale di espressione che amplia il bacino di utenza, allargando l’offerta laddove la domanda sovrabbonda e  soddisfacendo nuove domande laddove prima l’offerta era tecnicamente impossibile. Lo stesso sviluppo delle nuove tecnologie telematiche, dovuto anche alla domanda di telelavoro, crea nuovi servizi e nuove competenze prima inesistenti. Inoltre il gap formativo dell’Italia rappresenta un imbuto per la domanda di lavoro per via telematica, l’offerta ci sarebbe ma è frenata.

 

Come viene applicato il telelavoro nella pubblica amministrazione?

 

Ad oggi direi che rappresenta ancora un’applicazione marginale, per non dire sperimentale. Formalmente tutti i contratti dei comparti la riportano ma in pratica c’è una forte farraginosità tecnico-giuridica, visto che si concepisce il telelavoro soprattutto da altra sede fissa, con la pedissequa replicazione dei risvolti disciplinari sul potere datoriale, controllo e sicurezza del lavoratore. Si sarebbe potuto sfruttare meglio anche per la PA uno strumento che il legislatore nazionale ha previsto nella gestione organizzativa del lavoro con la Legge 148 del 2011 come sostegno alla contrattazione collettiva di prossimità.   La norma consente, proprio nell’organizzare il lavoro con le nuove tecnologie, anche di derogare alla legge e ai contratti collettivi nazionali, con la dichiarata finalità di migliorare l’occupazione, la competitività, i salari e le nuove attività. Occorrono regole più flessibili, non basta applicare le vecchie al nuovo se esso le destruttura nelle fondamenta. La recente nascita del progetto smartwork (lo smartwork è un’evoluzione «leggera» del telelavoro con cui si può decidere se stare a casa o in ufficio, a seconda delle esigenze produttive del momento. n.d.r.)  ne è un esempio concreto, tuttavia, anch’esso necessita di più fiducia e responsabilità ai lavoratori proprio attraverso i patti di prossimità.

 

Secondo un’indagine compiuta nel 1999 dall’Istituto europeo di ricerca empirica ECATT (Electronic Commerce and New Methods of Work)  i lavoratori dipendenti che prestano la loro attività con la modalità del telelavoro costituiscono in Italia  l’1,57% del totale della forza lavoro (contro una media europea dell 1,96%). Se si comprendono nel computo anche i lavoratori autonomi e parasubordinati, nonché i telelavoratori “occasionali”, la percentuale sale al 3,59% (contro la media europea del 6%). Nel frattempo questa forbice tra l’Italia e gli altri Paesi è diminuita o aumentata?

 

Il divario è in crescita visto che è il contesto di sviluppo il problema. Non solo politico per la mancanza di programmi condivisi e incentivanti ma anche normativo per il dovuto adeguamento di una regolamentazione ancora rigida, tecnico per il ritardo nella diffusione della banda larga su tutto il territorio, organizzativo per l’incompleta dematerializzazione delle attività della PA, culturale per la mancanza di fondo di una educazione digitale dei cittadini prima e dei lavoratori poi. La rigidità emerge specie nei rapporti di subordinazione dove, la sola applicazione del telelavoro, comporta già di per sé una forma di surrogazione dei poteri e controlli datoriali mediata proprio dall’autoresponsabilità del lavoratore e dallo spostamento di parte della valutazione sul prodotto finale.   Surrogazione che può essere più o meno strutturale, rendere più o meno evanescenti i confini tra lavoro subordinato e autonomo, così come le relative separate statistiche. Ciò che conta infatti è la diffusione della modalità lavorativa, il fatto che tra i subordinati ci sia una percentuale inferiore dipende soprattutto dalla disciplina di riferimento e dalla volontà e cultura organizzativa degli attori.

 

Quale dovrebbe essere il principale provvedimento che il Governo dovrebbe adottare in materia di Telelavoro?

 

Il telelavoro oggi esige per la sua applicazione di una nuova negoziazione tra le parti, perché occorre tararlo sia alla necessità organizzativa sia alla disponibilità e capacità lavorativa di ogni individuo. Il telelavoro porta con sé un qualità specializzante, spesso imprescindibile dall’attività come nel mobile telework, la quale richiede l’operosità delle parti coinvolte per raggiungere il fitness disciplinare, cosicché non sia l’organizzazione a subire, oggi, la norma generale che è nata per rafforzarne le modalità produttive, di un tempo.   Il Governo in materia di organizzazione e produzione ha fatto un primo concreto timido passo nel 2011, consentendo alla contrattazione di prossimità di adeguare alcuni istituti contrattuali secondo necessità. L’ambito d’intervento però è molto ristretto, la finalità della norma ben arginata. Occorrerebbe una maggiore autonomia disciplinare dell’organizzazione del lavoro. Autonomia che non significa procedere ad nutum (in diritto civile, ad nutum si definisce il licenziamento del lavoratore da parte del datore di lavoro senza che questi debba giustificare la propria volontà di recedere, con l’unico obbligo di darne preavviso alla controparte o, in mancanza, di corrispondere a essa un’indennità equivalente all’importo della retribuzione che spetterebbe per il periodo di preavviso n.d.r.). ma con linee guida ben definite, con una nuova soft law (disciplina flessibile n.d.r.) che segua sussidiariamente l’accordo europeo del 2002, a garanzia dei diritti indisponibili alle parti, lasciando al quadro legislativo la funzione di parametro default (parametri facoltativi, n.d.r.) in caso di assenza di contrattazione di prossimità derogante.

 

Nell’ambito di un nuovo Stato sociale in che misura il telelavoro potrebbe migliorare le condizioni dei lavoratori e di tutte le altre persone?

 

Tra i benefici quello sociale è stato uno dei primi ad essere messo in rilievo, ad esempio con il minor traffico e inquinamento. Sede e tempo di lavoro non vincolanti l’intera giornata consentono di sostituire le relazioni d’ufficio con le più importanti relazioni familiari e sociali. Valorizzare le capacità personali dando più responsabilità a chi telelavora contribuisce ad accrescere l’autostima, ciò migliora il risultato non solo del singolo ma anche quello finale all’utenza. Cambia la socializzazione tra colleghi se il lavoro si misura in risultati e non in tempi, vengono a crearsi di volta in volta collaborazioni secondo necessità contingenti, dal miglior risultato il guadagno è maggiore per tutti.   Il valore del singolo si amplifica nei gruppi di lavoro e telelavoro. I benefici economici sarebbero però a medio/lungo termine per la società, se si cercano solo quelli finanziari a breve è sufficiente delocalizzare finché si può, creando però diseconomie sociali.

 

I guadagni di produttività emersi dagli studi si tradurrebbero in maggior salario e introiti fiscali, che possono essere in parte finalizzati all’istruzione e formazione proprio  per creare e supportare la vita lavorativa a distanza; all’assistenza laddove il lavoratore abbia più difficoltà nel riqualificarsi, specie se di tipo tradizionale. Senza contare le economie esterne dovute all’assenza di continui picchi di traffico e inquinamento nelle grandi città, che diverrebbero più a misura di bambino, oltre al ragionevole calo della speculazione immobiliare locale, dovuta all’abbattimento della domanda nei pressi delle concentrazioni di uffici, ormai di discutibile utilità. La motivazione liberale che valorizza la personalità del lavoro a distanza necessita, tuttavia, di una guida nella condivisione dei nuovi tempi di vita, al fine di valorizzare la socialità che telework e smartwork possono creare.