In occasione della recente visita a Roma di Tenzin Gyatso, quattordicesimo Dalai Lama, la massima autorità spirituale del Buddhismo tibetano (in esilio dal 1959, a seguito dell’occupazione politica e militare del Tibet da parte della Cina),  abbiamo incontrato Marilia Bellaterra, psicologa e Presidente dell’Aref. Si tratta di una Onlus che dal 2003 fornisce supporto ai rifugiati Tibetani che vivono in India e Nepal affinché possano mantenere in vita la storia del Tibet, la sua religione e le sue tradizioni linguistiche e culturali e, quindi, preservarne le radici  e l’identità anche fuori dalla propria terra di origine. L’Aref è legalmente riconosciuta dal governo Italiano ed è accreditata presso il Governo Tibetano in esilio. E’ nota l’ostilità del Governo cinese verso chiunque incontri o sostenga il Dalai Lama nei suoi spostamenti internazionali. Di questa ostilità ne parla senza remore anche la Bellaterra nell’intervista che segue. 

 

Lei ha partecipato organizzativamente alla recente visita del Dalai Lama a Roma in occasione del 14° World Summit dei Premi Nobel per la Pace. E’ rimasta soddisfatta di come si è svolta la cerimonia?

 

L’organizzazione è stata, necessariamente, frettolosa e complessa. Due mesi per spostare un Summit dal Sud Africa a Roma non sono molti se si pensa a tutte le immaginabili difficoltà che si sono frapposte. D’altra parte Roma ha ospitato già otto volte il Summit, dal 1999 al 2007 e il Sindaco Marino ha quindi raccolto una tradizione consolidata. Certo l’imbarazzo per il rifiuto da parte del Governo Sudafricano di concedere al Dalai Lama, premio Nobel per la Pace nel 1959, il visto dovuto, ha accompagnato i lavori di questo Summit. Dando evidenza a come le leggi di mercato possano avere la meglio sulla logica stessa. Ma la tenacia di partecipanti e organizzatori ha mostrato che è possibile, decidendo di farlo onorare, nel pensiero e nelle azioni, l’eredità di Nelson Mandela e del suo credo di vita, come emerge in modo forte dalla dichiarazione finale di questo Summit e dall’impegno di ciascuno per una possibile Pace.

 

Sul piano umano come descriverebbe il Dalai Lama?

 

Un Leader spirituale, manifestazione del Buddha della compassione, cioè un Dio vivente per i Suoi fedeli e, insieme un semplice monaco, come Lui si definisce, sono variabili che rendono ogni descrizione manchevole e riduttiva. In tutte le numerose volte che ho avuto i previlegio di incontrarLo, in udienze pubbliche e private, ho sempre avuto di Lui l’immagine di una forza tangibile, resiliente e contagiosa. Di una profondità rara e di una capacità, ben più che umana, di comprendere, trasmettere, restituire, connettersi in modo intenso e sincero a ciascuno, offrendo a tutti la Sua genuina attenzione. L’ho sempre visto curioso, compassionevole, aperto e pronto a quella risata speciale che viene solo dal cuore. Kundun “la presenza” come Lo chiamano i Suoi fedeli è di certo una grande anima e, insieme, un essere umile e senza orpelli, come solo le creature elevate e superiori hanno il privilegio di essere e di potersi mostrare.

 

Come Lei si è avvicinata al mondo tibetano?

 

E’ stato ‘per caso’. A ridosso di un grave e duplice lutto che, nel 2001 mi ha portato in Ladakh e in India. Dove ho conosciuto, di persona, la forza resiliente di un Popolo straordinario. Da questa esperienza è nata la mia Associazione “Rina e Franco Bellaterra” International Onlus, in memoria dei miei genitori, impegnata nel sostenere gli esuli Tibetani con azioni di cooperazione, formative, politiche e sociali, sia in India che sul nostro territorio. E che continua da oltre 10 anni nel suo tenace lavoro grazie agli attuali Consiglieri, mio figlio Francesco Codispoti tra questi. In collaborazione con altri Organismi di settore, come l’Associazione Italia Tibet, di cui sono Consigliere nazionale e che si occupa da oltre 25 anni di sostenere politicamente la causa tibetana,  con numerosi accrediti nazionali, appoggiata da Referenti Locali di sicura affidabilità e riconosciuta dalla Central Tibetan Administration del Governo Tibetano in Esilio.

 

Che aria si vive oggi nel Tibet?

 

Quella che ci si può immaginare pensando a ben 150 persone, uomini e donne, laici e monaci, in età dai 13 ai 60 anni che, negli ultimi anni, si sono immolati con il fuoco per dare visibilità alla tragedia del loro Paese, occupato militarmente dal 1950 dal Governo di Pechino. L’aria di un’esasperazione tangibile, di fronte al silenzio dei Governi di altri Paesi e all’indifferenza dei tanti che stanno solo a guardare. Senza cogliere il senso delle violenze subite, delle persone uccise, dei Templi distrutti, dell’espressione di culto che diventa reato, della deforestazione intensiva, degli aborti forzati, dello sfruttamento tout court, della lingua e delle tradizioni annientate, dell’obbligo per i bambini, sin dalle elementari di leggere e scrivere solo in cinese. L’aria, in una parola, di quella ‘sinizzazione’ inarrestabile del Tibet che va avanti dal 1951, di quella aggressione demografica feroce, di quel esercito di oltre 150.000 esuli sparsi per il mondo, di quel ‘genocidio per diluizione’ che rischia di trasformare solo in ricordo la cultura millenaria del Popolo Tibetano, patrimonio dell’umanità intera.

 

Ci racconti in estrema sintesi il contenuto del suo libro ‘Figli dell’esilio. 10 anni trascorsi a dar voce al Popolo Tibetano’?

 

E’ il frutto di oltre 10 anni di lavoro della mia Associazione, con la prefazione del Capo del Governo Tibetano in Esilio. E il nostro contributo a che la tragedia del Popolo Tibetano resti vibrante ed esempio tangibile per ciascuno di noi. Ci sono dentro tutte le nostre emozioni e le nostre esperienze, attraverso le tante azioni di cooperazione internazionale a favore dei rifugiati Tibetani. E ci sono molte “storie”. Cioè la nostra scelta di tramettere in modo simbolico e spesso metaforico,  non di semplice cronaca, le tante vicende reali e vissute. Ci sono, anche, le testimonianze dei sostenitori che hanno avuto modo di connettersi a livello personale con i bambini, i monaci, i nonni, le famiglie che hanno deciso di sostenere. Oltre a quelle di alcuni Tibetani che ci testimoniano la loro gratitudine e il loro impegno. E, infine, ci sono moltissime foto. Quelle che illustrano, meglio di mille parole, il presente del Tibet e la significatività del nostro lavoro.

 

Come giudica la mancata visita del Dalai Lama in Vaticano, determinata dalla preoccupazione della Santa Sede di non creare degli ostacoli alle trattative in corso con i cinesi sulle libertà religiosa?

 

Sua Santità il Dalai Lama ha espresso solo rammarico per l’imbarazzo arrecato. E la Sua valutazione è di certo politicamente ponderata. Io mi lego piuttosto alla ‘tristezza’ di Desmond Tutu per questo mancato incontro. Penso che, in particolare Papa Francesco, così attento alle tante offese alla Democrazia e alla Pace, avrebbe potuto e dovuto fare di più. Magari seguendo l’esempio dei Suoi predecessori, Paolo VI che aveva ricevuto il Dalai Lama nel 1973, Giovanni Paolo II che dal 1980 al 1990 lo aveva incontrato 5 volte e Benedetto XVI che nel 2007 aveva fatto altrettanto, sebbene in forma privata. Certo le vessazioni della Repubblica Popolare Cinese non risparmiano nessuno e, senza toccare i temi noti del Vescovi cattolici incarcerati in Cina, e della libertà religiosa negata a qualunque confessione non istituzionale, dobbiamo ammettere che le esigenze della realpolitk e gli interessi non solo spirituali della Chiesa hanno avuto la meglio, nell’obiettivo di evitare che si richiudesse lo spiraglio, di recente aperto, nelle trattative tra Pechino e la Santa Sede.

 

È dal 2011 che il Dalai Lama si è dimesso da capo del governo tibetano in esilio. Inoltre ha rinunciato all’indipendenza del Tibet in favore di un’ampia autonomia. Lei crede che quest’obiettivo sia raggiungibile in tempi ragionevoli?

 

Vorrei essere ottimista ma non lo credo. Ad oggi la RPC ancora si ostina, contro ogni evidenza, a definire il Dalai Lama un ‘lupo vestito da agnello’, accusandolo di separatismo, quasi fosse un terrorista invece che una vittima del regime. Tutti speriamo che la Cina possa fare passi in avanti, rivedere posizioni del passato e fare nuove ‘concessioni’ di autonomia, di dialogo, di diritti,  considerando il futuro che avanza, invece che gli interessi del presente. La verità è che questa speranza non sembra né attendibile né reale. Almeno non in tempi brevi. Ma, necessariamente, un giorno, lo steso popolo cinese, minerà dall’interno il proprio sistema. E la Cina, al culmine della propria sconsiderata espansione, finirà per implodere su se stessa. Quindi credo piuttosto in un cambiamento dall’interno, capace di far nascere una nuova democrazia. Stimolata dalla lotta di tante persone, oppresse al pari del Tibetani. Come testimonia la recente ‘rivoluzione degli ombrelli’ di Hong Kong, con un oceano di giovani che si battono per il diritto al suffragio universale.

 

Il nuovo corso cinese, soprattutto sul piano economico, potrebbe incidere anche sulla questione tibetana?    

 

Quale nuovo corso? Vedo solo un’espansione esponenziale di un corso consolidato e noto. Proveniente da un Paese dove la distanza tra classe al potere e popolazione è siderale. Dove i turni di lavoro viaggiano su ritmi disumani di 15 ore, con doppi badge (ufficiale e non), dove i suicidi sul lavoro sono all’ordine del giorno, dove lo sfruttamento dei bambini lavoratori è prassi comune. Come lo è il traffico di organi, gli aborti forzati, la detenzione e la tortura fino alla morte nei Laogai (o in ciò che, solo formalmente, li ha sostituiti) anche per semplici reati di opinione, l’assenza di libertà di stampa e di pensiero. Per non parlare della bolla edilizia in Cina, dell’aria ormai irrespirabile, delle città cancerogene e dei 1,4 milioni di morti per inquinamento solo nel 2010. E vedo che questo corso incide, allargandosi a macchia d’olio, su tutti noi.

 

Visto che è la nostra stessa economia a pagare il prezzo di uno strapotere economico che, ottusamente non contrastiamo. Avvelenati da prodotti ‘Made in China’ che si annidano tra i cibi taroccati, i farmaci che assumiamo ogni giorno, i giocattoli tossici con cui giocano i nostri bambini, i vestiti che indossiamo, le creme che usiamo per la nostra pelle, gli infiniti oggetti tecnologici (o i loro componenti) che popolano la nostra vita, insieme alla paccottiglia inutile che ci invade.

 

Diciamo che, da quando è entrata ufficialmente a far parte del WTO nel 2001, dopo oltre 15 anni di trattative, la Cina ha avuto il via libera non solo all’apertura del proprio mercato ai beni e servizi dei Paesi membri, ma all’incremento delle opportunità di esportazione e all’appropriazione delle nostre aziende in crisi. Per questo, ancor prima di agire in senso etico a favore di un popolo oppresso, quale quello del Tibet faremmo bene a pensare alla nostra economia, alla nostra cultura, alle nostre scelte economiche e commerciali, perché gli errori che stiamo commettendo nel presente non dettino, tragicamente, il nostro futuro.

 

La conoscenza del mondo tibetano ha avuto una qualche influenza sulla sua attività di psicologa?

 

Dice l’antropologo Gregory Bateson che si impara solo per differenza. Quindi, di sicuro, da questo Popolo, così ‘differente’, ho molto imparato. O meglio ho rafforzato alcuni orientamenti che da sempre accompagnano il mio lavoro. Per esempio la forza della condivisione, la ricchezza delle tradizioni sia culturali che familiari e trigenerazionali. E, soprattutto, più che l’attenzione ai limiti, la fiducia nelle risorse delle persone. Cioè quella particolare caratteristica chiamata ‘resilienza’ che rende gli esseri umani capaci di far fronte agli eventi sconvolgenti della vita trovando, proprio in essi, la forza per una nuova fase di crescita e di evoluzione. Come mi ha insegnato, in modo vibrante e diretto, il Popolo Tibetano. E come, del resto, ho imparato, quale psicoterapeuta, da tutte le famiglie e da tutti i pazienti incontrati negli oltre 30 anni del mio lavoro.

NOTA: l’indirizzo di Aref International è: Via di San Crisogono 39, 00153 Roma, tel. 06 5896181, www.arefinternational.org – info@arefinternational.org

 Marilia Bellaterra