Quest’articolo fa parte del libretto ‘NUOVO STATO SOCIALE Dai Comuni all’Europa’ di Rainero Schembri, edito dal nuovo Partito della Convergenza Socialista, con la prefazione del Segretario Generale Manuel Santoro. Insieme ai capitoli del libretto vengono pubblicati su Punto Continenti anche altri significativi articoli sull’argomento.

 

Sin dai primordi della storia, l’uomo ha avuto la necessità di ripararsi dal freddo  pungente o dalle scottature solari e desertiche, con eccezione forse delle fortunate tribù residenti nei luoghi temperati e che fino ai giorni nostri hanno vissuto felicemente in semi nudità, come gli indios dell’Amazzonia. Col passare dei secoli, il vestiario oltre a servire come protezione contro il freddo e il caldo e a coprire le parti più intime del corpo (a seguito di un crescente pudore), si è trasformato anche in un fatto di moda, di prestigio sociale, di seduzione. In questa nuova visione l’abbigliamento è diventato gradualmente in un grande affare commerciale, capace di dare lavoro e sostentamento a tantissime persone, come lo testimonia, ad esempio, la storia della moda italiana che ha rappresentato e rappresenta ancora oggi una delle eccellenze mondiali.

 

Fin qui, tutto bene. Nessuno intende, infatti, negare l’importanza e il valore della moda. Allo stesso tempo, però, è bene tenere presente che lo scopo ‘essenziale’ di
ogni capo d’abbigliamento rimane sempre quello di proteggere il corpo contro le intemperanze climatiche. Il resto, per quanto apprezzabile, è solo un aspetto superfluo del quale potremmo privarci tranquillamente. In ogni caso, una società composta da tante persone che soffrono il freddo perché non hanno il necessario per ripararsi, potrà anche essere una società raffinata nei suoi tessuti e tagli ma resterà sempre una società arretrata e ingiusta sul piano sociale. Da non sottovalutare, poi, il fatto che chi è costretto a indossare degli stracci, magari strappati, e quindi a non avere un abbigliamento minimamente dignitoso, è soggetto automaticamente a una forma di discriminazione sociale. E qui non c’entra la moda ma la semplice constatazione che difficilmente un povero vestito da straccione troverà un lavoro. A sbarrargli la strada potrebbe essere proprio uno di quei signori ‘per bene’ che amano portare finti strappi sul pantalone: una moda che ha sempre avuto il sapore di uno sfregio verso chi è costretto a convivere con i veri strappi della povertà.

 

Simbolicamente una cosa che l’occidente potrebbe invidiare al mondo arabo e alle popolazioni più legate alle tradizioni, sono le comodissime tuniche lunghe spesso
abbinate a dei semplici sandali usati anche dalla classi più ricche. C’è qualcosa di più comodo, economico ed egalitario? Anche Gesù Cristo si vestiva con una normale tunica. Lo stesso faceva Buddha, che proveniva da una famiglia ricchissima. Simile scelta è stata ripetuta quasi mille e settecento anni dopo da San Francesco. E poi da Gandhi. In tutte le epoche storiche gli appartenenti alle comunità religiose e filosofiche, sia in oriente che occidente, si sono sempre vestite in una maniera semplicissima, ‘essenziale’. Anche le persone colte e spiritualmente elevate, hanno quasi sempre dedicato una scarsissima importanza all’abbigliamento. Detto ciò, obiettivamente appare difficile immaginare che in occidente possa prevalere da un giorno all’altro l’uso della tunica, sia per gli uomini che per le donne. Tuttavia, perché non immaginare una larga diffusione di un abbigliamento estremamente semplice, maneggevole e pratico. Un abbigliamento che potrebbe anche rispecchiare un particolare modo di pensare.

 

Qualcosa del genere è già accaduto negli anni scorsi. Facciamo riferimento a un abbigliamento di origine italiana: i blue jeans. Si, proprio i blue jeans che molti erroneamente credono che sia una cosa americana legata ai cowboys, e quindi lontana dalla cultura europea e, in particolare, da quella italiana. I primi blue jeans risalgono, infatti, al XV secolo quando a Genova i pantaloni venivano fatti con la tela blu usata per le vele. Del resto, la stessa parola jeans deriva da bleu de Genes, ovvero blu di Genova in lingua francese. E’ vero, invece, che solo nella seconda metà dell’ottocento, a seguito della scoperta dell’oro in California, i vestiti in jeans ebbero una grande diffusioni. Tuttavia, anche Garibaldi e i garibaldini fecero largo uso dei ‘genovesi’. Nel ventesimo secolo ci fu poi una vera esplosione dei jeans che presto, con l’introduzione di una serie di varianti e abbellimenti, divennero molto costosi tradendo così lo spirito originario dei jeans.

 

Da ricordare, giusto per la cronaca, che nel novembre del 2004 per commemorare la nascita di questo tessuto è stato disegnato a Genova dagli studenti del liceo artistico Nicolò Barabino (e realizzato dagli studenti dell’Istituto Professionale ‘Duchessa di Galliera’) un mega pantalone ‘blu di Genova’ alto 18 metri, realizzato con 600 paia di vecchi jeans e issato su un’alta gru del porto antico della città. Ebbene, perché non immaginare che altri studenti italiani o anche grandi case di moda progettino un nuovo abbigliamento ‘Made in Italy’ low cost, in grado di portare insieme alla stoffa anche una nuova concezione della vita, oltre a contribuire a risolvere uno dei più gravi problemi sociali.

 

Dalle parole a fatti possibili. La prima idea che spontaneamente viene in mente è quella di promuovere e sviluppare nell’ambito dei vari Comuni grandi centri di raccolta e smistamento di capi di abbigliamento suddivisi in due reparti: quello dell’usato e quello del nuovo low cost. Il reparto dell’usato verrebbe rifornito direttamente dalla popolazione e tutti i capi verrebbero venduti in maniera controllata (non più di tre a persona) a un prezzo simbolico di 1 euro. Il reparto del nuovo si baserebbe, invece, su una produzione di massa sovvenzionata dallo Stato. Per quanto riguarda la fattibilità economica occorre lavorare intorno a un’ipotesi che preveda che ogni cittadino possa vestirsi dignitosamente spendendo mensilmente l’equivalente al 10% del Reddito di cittadinanza.

 

Anche in questo caso (come già suggerito per l’alimentazione) importante è far accompagnare l’intera iniziativa da un’adeguata campagna di sensibilizzazione culturale. In sostanza, l’abbigliamento low cost non deve trasformarsi in una ‘divisa dei poveri’, perché sarebbe discriminatorio e umiliante, ma in una scelta di vita. Allo stesso modo che i jeans sono diventati un fenomeno popolare e trasversale tra le classi, così l’abbigliamento low cost potrebbe rispecchiare una certa filosofia di vita. Detto diversamente, sostituire ogni tanto l’abito firmato con un capo ‘low cost’ non solo sarebbe una scelta di praticità ma farebbe anche bene allo spirito. Sarebbe un po’ come praticare il digiuno per capire quanta sia dura la fame.

 Rainero Schembri

 

Nota: In precedenza sono stati pubblicati:

(1) UN IMPEGNO ORMAI IMPROROGABILE –  http://puntocontinenti.it/?p=7462

(2) LE INQUIETUDINI DEL XXI SECOLI – http://puntocontinenti.it/?p=7610

(3) GARANTIRE I 6 BISOGNI  ESSENZIALI – http://puntocontinenti.it/?p=7775

(4) LA DURA LOTTA ALLA FAME – http://puntocontinenti.it/?p=8083

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