(foto: nel riquadro in b/n Carlos Beristain)

Riceviamo e volentieri pubblichiamo una riflessione di Carlos Beristain sulla grave crisi scoppiata tra Israele e i Palestinesi. Spagnolo, medico e dottore in ricerca in psicologia dal 1989,  Beristain ha partecipato in prima persona ai lavori e alle indagini della ‘Commissione per la chiarificazione della verità sulla guerra civile in Colombia’. Un lavoro iniziato dopo la firma degli accordi di Pace tra il Governo della Colombia e la formazione guerrigliera delle Farc nel 2016.

Da moltissimi anni Beristain lavora in numerosi Paesi con le vittime di violazioni dei diritti umani in progetti di assistenza psicosociale e di memoria collettiva.  Autore di numerosi libri, è stato anche coordinatore  del rapporto ‘Guatemala Nunca Más’ e consulente delle commissioni per la verità sul Paraguay. Si tratta di una vera autorità in campo internazionale nella ricerca della Pace. Per Punto Continenti e per la REA (Radiotelevisioni Europee Associate) sia per il conflitto arabo-israeliano, sia per quello tra l’Ucraina e la Russia, sarebbe molto utile avvalersi dell’esperienza di Beristain per trovare una soluzione a questi due conflitti che stanno minacciando la pace dell’intero pianeta.

Riflessione di Carlos Martin Beristain

I tamburi di guerra risuonano nel mondo, con una musica sorda che non lascia trasparire altro che rabbia. La polizia della coscienza giudica ciò che si può o non si può dire, ciò che si può manifestare o esprimere. Ci sono sommi pontefici che distribuiscono qualificazioni, chi è il male totale e chi deve rispettare i limiti. I criteri di misurazione vengono scambiati a seconda dei responsabili di tanti eventi atroci, che fanno soffrire persone da noi osservate in lontananza ma che si trovano su entrambi i lati del confine.

Le guerre arrivano con le loro asimmetrie di armi e di sostegno e con le loro “modalità di guerra”, come ha sottolineato, a sua tempo, la Commissione Colombiana per la Verità. Tutto viene stravolto. Le coalizioni di paesi, gli interessi economici e il sostegno politico a coloro che sono considerati “nostri” determina ciò che bisogna credere e ciò che non deve essere criticato. I ragazzi e le ragazze morti non sanno nemmeno da che parte stanno; volevano solo una vita degna di questo nome ma ne sono rimasti senza. Sentiamo solo donne provenienti dall’Ucraina, dalla Palestina, dalla Russia o da Israele parlare come vittime che chiedono una via d’uscita. D’altro canto, le élite tornano sempre sugli stessi duri discorsi. Non occorre essere uno scienziato sociale per capire che alla base di tutto c’è la politica che stringe i lacci contro la Palestina.

L’orrore contro la popolazione civile è intollerabile e non vi sono due facce della medesima questione. La parte di chi mette a dura prova la sofferenza deve essere ascoltata. Sappiamo che ogni guerra fa serrare i ranghi alimentando paure interne. Riservare uno spazio alla parola solo per un momento successivo è decisamente la strategia peggiore. Analizzare i problemi e le responsabilità e adottare misure affinché gli avvenimenti non si ripetano non possono essere rinviate in continuazione, perché è proprio questo comportamento attendista che ci ha portato alla situazione in cui ci troviamo.

La violenza contro la popolazione viene giustificata dal fatto che non se ne parla. La responsabilità è dell’altro, dello “Stato”, del gruppo contro cui si lotta. Ma il campo di battaglia è la vita delle persone e del territorio. Ci sono momenti in cui in cui il confronto finisce per svilupparsi senza vergogna. Ríos Montt (generale e Presidente del Guatemala, n.d.r.), nel 1982, in un’intervista con un giornalista nordamericano, giustificava l’uccisione di 10 civili con la contemporanea morte di un solo ribelle. Un comandante paramilitare in Colombia, in un altro scambio di franchezze, ha elevato questa cifra a 20. Per i guerriglieri, i rapimenti si giustificavano col fatto che un imprenditore che non paga è semplicemente un nemico. Nel 1954, il governo democratico di Arbenz in Guatemala venne rovesciato da un colpo di stato militare attuato dal colonnello Castillo Armas e sponsorizzato dalla CIA: in questo modo s’inaugurato il periodo delle dittature, delle lotte armate e delle guerre che hanno sconvolto per i successivi 50 anni l’America Latina.

In questa nuova-vecchia guerra, parliamo di comunità ferite. Le espressioni estreme, usate nei discorsi estremisti, sono un balsamo per le ferite. Ecco perché funzionano come collante. Nel suo libro Murderous Identities, Amin Maalouf (giornalista e scrittore libanese ndr.) afferma che i movimenti islamici non sono un prodotto del Corano o dei quindici secoli di storia dell’Islam, ma piuttosto il risultato delle attuali tensioni sociali. Per Maalouf il fondamentalismo potrà essere compreso meglio leggendo trenta pagine sul colonialismo piuttosto che dieci voluminosi  libri sulla storia dell’Islam. Sono 60 anni che osserviamo come la Palestina si deteriora, viene uccisa, controllata, occupata, colpita da colpi di arma da fuoco, e come Israele si difende dagli attacchi causati dalla sua occupazione con muri, telecamere, satelliti, tecnologie, bombe e odio che si rumina e fa esplodere tutto ciò di cui si nutre. La terra di Palestina è la culla di molte delle nostre culture, nonché l’espressione odierna di quel nuovo colonialismo dell’esclusione e della minaccia di sterminio della popolazione civile, del tentativo sloggiarla con la forza e di non lasciarla vivere.

Molti conflitti sanguinosi degli ultimi anni in Africa o nell’Europa dell’Est si basano su vecchie dispute identitarie (“noi e loro”). Tra fondamentalismo e disintegrazione c’è uno spazio che non è quello delle cosiddette democrazie occidentali, ma quello di una coalizione proveniente dal basso che riguarda tutti i Paesi alla ricerca di una vita fatta di pace e convivenza con gli altri popoli. Viviamo in tempi in cui i politici sono più impegnati a controllare la realtà che a trasformarla. Per Amin Maalouf la scelta non è quella di negare se stessi o gli altri ma di sottolineare l’importanza dei gruppi o movimenti esistenti ai confini: gruppi capaci di assumere la diversità e servire da collegamento tra comunità e culture diverse.

Edward Said (scrittore palestinese, ndr.) o Daniel Baremboin (direttore d’orchestra ndr.) fanno parte di quei opinion leader che devono essere ascoltati. Said ha scritto venti anni fa, che la società palestinese quasi distrutta, quasi devastata sotto tanti aspetti, è ancora capace di dominare con la sua anima la crescente oscurità. Baremboin qualche giorno fa con un suo messaggio ha sottolineato che se neghiamo l’umanità degli altri saremo perduti, “le contrapposizioni non hanno fatto altro che irrigidirsi ancora di più nel corso delle generazioni. Sono convinto”, ha sostenuto ancora Baremboin, “che gli israeliani saranno al sicuro quando i palestinesi potranno avere speranza, cioè giustizia”

Un noto leader delle FARC-EP (Movimento guerrigliero colombiano, ndr.) ha dichiarato al governo colombiano nel corso di una fase di stallo dei negoziati di pace a metà degli anni ’90: “Ci rivedremo dopo altri 10.000 morti”. Purtroppo ce ne sono state molte di più al momento della firma dell’accordo all’Avana nel 2016. Una guerra si ferma per calcoli politici, per numero di vittime, per costi politici o militari, per pressioni internazionali o per la stanchezza di non farcela più. In molti paesi la distanza tra i governanti e i loro popoli cresce e si misura con la consistenza dell’indignazione. Ciò probabilmente amplia ulteriormente le minacce, ma avvicina anche la soluzione dei problemi tra due Stati: problemi spesso rimandati per troppo tempo. Risolvere i problemi significa ridare ai palestinesi la possibilità di svilupparsi e consentire ai due popoli di vivere un’esistenza condivisa umanamente.

La mia seconda madre, Fabiola Lalinde, il cui figlio Luis Fernando era un attivista politico fatto sparire da una pattuglia dell’esercito colombiano, diceva che le cose si potevano risolvere creando il partito delle madri. Lei sognava un tavolo di dialogo e di azione delle comunità di madri dei rapiti e madri degli scomparsi.

Le cose vanno fatte proprio quando sembra che non le si possa fare. Aspettare che un conflitto maturi, come se fosse una teoria di Newton, è la peggiore delle strategie. Ecco perché è così importante che le voci dei dissidenti e audaci vengano ascoltate. Solo l’etica e il rispetto dei diritti umani e del diritto umanitario internazionale ci possono salvare: perché è questo il nostro mondo, perché sono profondamente nostri tutti conflitti che minacciano la nostra esistenza.

Carlos Martin Beristain

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