Foto: Nel riquadro di una strada di Tokyo, Marco Patella

 

Marco Patella nasce a Motta di Licenza (TV) nel 1983. Sin da bambino si dimostra una persona estremamente curiosa, infatti oltre alla passione per la musica (studi di sax, piano e basso elettrico) dal 1997 si dedica allo studio dell’arte marziale WingTsun Kung Fu, diventando istruttore nel 2004. Oltre a questo si dedica alla fotografia con risultati apprezzabili (il suo lavoro viene pubblicato in Italia, Giappone, Hong Kong, Taiwan, US, Inghilterra e Nuova Zelanda). Dopo la laurea in Economia Aziendale, nel 2007,  si trasferisce a Tokyo, dove tutt’ora risiede, e lavora come recruiter per la maggiore azienda del settore in Giappone. Patella è anche Responsabile del Centro Stampa Sociale Tokyo che fa parte della rete internazionale dei Centri Stampa Sociali patrocinati dalla REA (Radiotelevisioni Europee Associate). Vedere elenco allegato (1) insieme allo Spot REA sullo Stato Sociale (2).

Cosa l’ha portata a vivere in Giappone? Pensa di tornare in Italia?

Ho sempre considerato il Giappone un paese estremamente affascinante. Sin da bambino l’ho immaginato come qualcosa di estremamente “distante” dalla nostra cultura, mi affascinava la cerimoniosità dei piccoli gesti quotidiani ed il fatto che le tradizioni siano ancora estremamente presenti e vivide in un paese così tecnologicamente avanzato.

Correva l’anno 2007, dopo la laurea in Economia Aziendale ho voluto fare una esperienza all’estero per vedere un po’ di mondo prima di mettere radici da qualche parte. Decisi dunque di mandare il mio curriculum a tutte le istituzioni italiane (ambasciate, ICE ecc.) fuori dall’Europa, in quanto volevo vivere una esperienza in un paese completamente diverso dalla realtà a cui ero abituato. Ricevetti la prima risposta dalla Camera di Commercio Italiana in Giappone, che mi invitava a fare un tirocinio presso il loro ufficio di Tokyo.

Per una persona come me, nata e cresciuta in un paese di diecimila anime, arrivare in una megalopoli di oltre quindici milioni di abitanti è stata un’esperienza dall’impatto piuttosto forte, in quanto, ovviamente, non conoscevo nessuno ed il mio inglese scolastico serviva a ben poco. Anche le azioni quotidiane più banali come lo spostarsi in treno non erano semplici, ma proprio per questo ho trovato la vita in Giappone molto stimolante: ogni giorno c’era qualcosa di nuovo da imparare, e persone dal passato affascinante delle quali volevo sentire le storie.

Ci parli un po’ delle difficoltà linguistiche.

Ovviamente per poter vivere in un paese straniero la conoscenza della lingua locale è un obbligo. Ragionando al contrario, potrebbe mai un, diciamo, Thailandese vivere in Italia senza conoscerne la lingua? Così il mio allora superiore mi disse “vuoi stare in Giappone? Impara la lingua e cerca un lavoro”. Consiglio piuttosto banale, a primo acchito, ma fu decisamente uno dei migliori consigli che abbia mai ricevuto finora: se vuoi una cosa è inutile girarci intorno, investi tutte le tue risorse (monetarie e temporali) per raggiungere il tuo obiettivo.

Così decisi di frequentare un corso di lingua giapponese presso una scuola di Tokyo, dalla quale mi diplomai nel 2011 al corso di giapponese commerciale, e da li iniziai la mia carriera in questo bellissimo paese. Direi, dunque, che la mia esperienza nel paese del sol levante nasce un po’ per una fortunata coincidenza.

Ovviamente mi mancano la famiglia e gli amici, ma devo anche ammettere che quando ritorno in Italia non la sento più come casa mia. Anche se giorno per giorno non me ne accorgo immagino che quasi dieci anni a Tokyo mi abbiano cambiato. In effetti ci sono situazioni ed esperienze che è difficile condividere con gli amici d’infanzia in quanto, semplicemente, non potrebbero capire. E’ un po’ come diventare genitore e provare a spiegarlo a chi non lo è. Difficile. Inoltre ad oggi mi sono creato un buon network a Tokyo, ed ho un buon lavoro. Sinceramente non credo che morirò in Giappone, ma allo stesso tempo non considero di rientrare in Italia. Non per il momento, almeno.

Lei aiuta a trovare lavoro agli italiani che desiderano trasferirsi in Giappone. E’ una cosa molto difficile?

In quanto recruiter Il mio lavoro consiste, più precisamente, nell’aiutare i miei clienti a chiudere le posizioni che hanno aperte. La mia area di specializzazione è l’IT (Information Technology), pertanto lavoro molto da vicino con aziende quali IBM, Microsoft, PHILIPS eccetera. In altre parole queste aziende cercano di assumere personale a Tokyo, ed il mio compito è di presentargliele.

Nella stragrande maggioranza dei casi i miei clienti cercano di assumere persone giapponesi che parlano la lingua inglese. Anche qui il ragionamento speculare può aiutare a capire meglio: l’azienda italiana Pinco Pallino SPA sarebbe mai interessata ad assumere il signor Kobayashi per una posizione di direttore vendite, anche se non parla una parola di italiano?

Ovviamente nel nostro database ci sono diversi candidati stranieri, anche italiani, e parte del mio lavoro consiste nel valutare il loro livello linguistico, in modo da poter gestire le aspettative dei miei clienti. Infatti per posizioni più tecniche, dove l’interfaccia con il cliente non è necessaria, il candidato straniero può rappresentare un valore aggiunto. Diciamo che se il candidato straniero non ha una conoscenza almeno business (commerciale) della lingua giapponese c’è ben poco da fare. Penso che, realisticamente, se si decide di abitare in un paese dove la madrelingua non è l’inglese uno studio approfondito dell’idioma locale sia d’obbligo.

Quanto tempo ci vuole per imparare discretamente una lingua così diversa?

Nonostante conosca diversi stranieri che non mastichino più di tre parole di giapponese, non potrei essere più d’accordo: la conoscenza della lingua locale è decisamente indispensabile. Tuttavia dipende molto anche dal tipo di impiego che si fa. Per esempio il vocabolario di cui necessita un cameriere è diverso dal vocabolario che serve ad un ingegnere nucleare. La lingua giapponese è molto complessa: in realtà la grammatica è molto più semplice della nostra, e per noi italiani anche la pronuncia non è complicata.

La difficoltà consiste più che altro nel creare un vocabolario nuovo, sopratutto perché la lingua giapponese è molto espressiva e comprende una miriade di sfumature, quindi per poter parlare ad un buon livello occorre una conoscenza di molti vocaboli. Dall’altra parte della medaglia, scrivere e leggere sono un altro paio di maniche: dopo qualche mese in Giappone chiunque è in grado di imparare qualche frase e poter lavorare in un ristorante. Altra cosa è, invece, scrivere una e-mail commerciale.

Detto ciò, penso che chiunque abbia studiato una lingua straniera sia d’accordo con me quando affermo che l’apprendimento sia una questione di tempo e di dedizione (i giapponesi stessi hanno impiegato anni a scuola per imparare tutti i caratteri che conoscono, come si può pretendere che in due anni un italiano, adulto, ne possa imparare quattromila?), e che il solo fatto di essere nato in un certo Paese non significhi necessariamente conoscerne alla perfezione l’idioma (ogni giorno leggo cose scritte da ragazzi italiani, molti dei quali in possesso di una laurea, completamente sgrammaticate e con i verbi coniugati in modo incorretto). Vivere in un paese asiatico richiede una buona conoscenza della lingua locale, oltre che dell’inglese, e per noi è come ritornare bambini: dobbiamo letteralmente ricominciare dall’ABC.

Lei come se l’è cavata?

Ricordo la mia prima lezione di giapponese, abbiamo cominciato da “io mi chiamo…”. Ammetto che sia stato un po’ frustrante a volte avere in testa dei concetti e non avere i mezzi per esprimerli, ma sono cose che bisogna mettere in conto prima di intraprendere questo genere di strada. A tal proposito, ricordo un proverbio molto carino: tutti vorrebbero stare in cima alla montagna, ma il gusto sta tutto nello scalarla. Chi decide di intraprendere lo studio di una lingua straniera che utilizza caratteri diversi dal nostro alfabeto (arabo, cinese, coreano ecc.) dovrebbe concentrarsi di più nella parte in cui si è più deboli, ossia la scrittura e la lettura: ovviamente un taiwanese è molto più avvantaggiato di un italiano nello studio della lingua giapponese come, al contrario, un italiano è più avvantaggiato dello stesso taiwanese nello studio della lingua spagnola.

Io personalmente ho fatto diversi esami di lingua con risultati anche apprezzabili (i vari JLPT, BJT ecc.), ma dopo essere entrato nel mondo del lavoro devo dire che hanno un peso decisamente marginale, per non dire nullo. Quel che voglio dire è che gli esami linguistici dovrebbero essere un traguardo personale, certo, ma non l’unico obiettivo: il fatto di possedere il livello N1 del JLPT (il più alto) – piuttosto che il massimo punteggio dell’IELTS – non ti garantisce di trovare un lavoro, anzi, i giapponesi non hanno nemmeno idea di che cosa sia. Esiste una certificazione ufficiale di lingua giapponese per gli stranieri, il JLPT (Japanese Language Proficiency Test) che si divide in cinque livelli, dove il livello 5 rappresenta il gradino più basso e l’1 quello più alto (quasi madrelingua, direi). Chi scrive ha superato il livello 2 dopo quindici mesi di studio. Lungi da me dal dire che il mio giapponese sia perfetto, anzi, ma con un po’ di buona volontà si può raggiungere un livello discreto in un anno.

Quali sono le maggiori difficoltà per ambientarsi e adattarsi alla mentalità giapponese?

Tiziano Terzani scrisse in un suo libro che l’azienda giapponese sforna macchine perfette, e che la miglior azienda giapponese è la scuola. Devo ammettere che anche oggi le cose non sono cambiate molto: in generale la mentalità giapponese è molto precisa e poco flessibile. Esattamente il contrario di noi italiani che siamo estremamente flessibili e non precisi. Per esempio andare in un McDonald ed ordinare un hamburger senza ketchup manderà nel panico totale il cassiere, che non riuscirà concepire un ordine non presente nel menu.

A me piace anche l’esempio del samurai aziendale, come lo chiamo io: come una volta il samurai dedicava la sua intera esistenza al suo padrone, oggi l’impiegato si comporta analogamente nei confronti dell’azienda. Perciò i giapponesi lavorano tante ore, c’è una sorta di regola implicita per cui lavorare tanto è meglio che lavorare in modo efficiente. Chiaramente questo non è sempre vero, ma purtroppo lo è molto spesso: io stesso ho dato le dimissioni alla mia azienda precedente quando mi è stato chiesto di lavorare più a lungo senza aver ricevuto nessuna giustificazione a riguardo.

Pertanto, secondo me, la maggiore difficoltà sta sicuramente nel fatto di dover accettare delle cose senza essere in grado di comprenderle (il panino arriverà con il ketchup, e in azienda si lavora fino a tardi perché si deve). Allo stesso modo non si può pretendere che certe nostre usanze vengano comprese dai giapponesi.

Che immagine hanno generalmente i giapponesi dell’Italia?

In generale ai giapponesi piace molto l’Italia. Il cibo italiano in Giappone è sicuramente quello che va per la maggiore ma a volte mi chiedo se non sia solamente un fatto di “esoticità” in quanto anche per noi italiani il sushi è una moda. Noi italiani siamo un popolo di poeti, artisti e sognatori, credo siano le cose che mancano ai giapponesi, e che per questo il nostro paese goda di un’ottima reputazione. Solitamente sono le persone di una certa età che apprezzano l’Italia maggiormente, le persone interessate all’arte, alla musica ed alla storia. I giovani solitamente prediligono di più l’America o l’Australia e preferiscono viaggiare lì piuttosto che in Europa.

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Note

(1) Attualmente fanno parte della Rete di Centri Stampa Sociali patrocinati dalla REA:

Estero: Argentina (Buenos Aires), Belgio (Bruxelles), Brasile (San Paolo e Porto Alegre), Giappone (Tokyo), Marocco (Casablanca), Messico (Città del Messico e Chiapas) e Stati Uniti (New York).

Italia: Campania (Ariano Irpino),  Lazio (Roma, Grottaferrata, Formia), Lombardia (Milano), Sicilia (Palermo), Veneto (Chioggia e Vicenza).

(2) Spot REA sullo Stato Sociale

https://www.youtube.com/watch?v=3b9o7OIjfTA