Da Roberto Spagnuolo (nel riquadro) riceviamo e  pubblichiamo volentieri un commento sulla realtà greca e sulle possibili soluzioni da applicare in Europa per quanto riguarda il salvataggio delle banche. Studioso della gestione dei conti pubblici, Spagnuolo per molti anni si è occupato di consulenza e formazione per grandi enti pubblici (Tim, Poste Italiane ed Enel). 

 

Forti sono state le critiche alla vigilia del referendum greco, circa i possibili, terribili, risvolti che una vittoria del NO avrebbe comportato, con tutte le conseguenze e responsabilità che solo il popolo avrebbe subìto, “in ragione della propria irragionevolezza”. Infatti, speculatori finanziari, armatori, governi e politici accondiscendenti (volenti o nolenti in quanto sotto il ricatto di licenziamenti di massa) hanno beneficiato del lassismo programmatico che pur vi è stato. Tutti, incapaci (o piuttosto nolenti) di progettare un modello di crescita del paese e dell’UE diverso da quello standardizzato e imposto dall’esterno, ma che avrebbe potuto essere, sicuramente, più proficuo nel medio-lungo termine, se opportunamente attuato nelle proprie riforme di base sociali ed economiche. Certo una politica del genere non sarebbe stata in linea con i desiderata vigenti sullo status quo ben più favorevole alle grandi rendite di posizione che, per comprovata definizione, sono sterili in funzione dello sviluppo.

 

Il popolo greco è divenuto così potente da far fallire l’euro, non gli interessi finanziari e politici, locali e internazionali, non una politica di sviluppo dell’UE improntata unicamente sulla crescita commerciale slegata dal corrispondente adeguamento delle esigenze sociali che un tale sviluppo deve comportare. Il popolo greco carica così sulle proprie spalle “il rischio di uscire dall’euro”, peccato che nessuno gli abbia detto chiaramente, a tempo debito, quale fosse il rischio entrando nell’euro, perché i vantaggi sono stati solo per pochi “eletti”. Non esistono modelli di crescita alternativi a quelli imposti nell’UE solo per le menti mono-strutturate od operanti con dolo, perché vi è sempre una scelta alternativa, certamente con conseguenze, ma opportunamente distribuite in modo più equo tra gli operatori.

 

Banche e accordi commerciali internazionali non sono affatto responsabili, eppure vi è ora chi propone un modello alternativo al salvataggio “a prescindere”, attuato fino ad ora a favore delle banche fallite e a spese degli Stati (cioè dei popoli), come, ad esempio, una posizione di garanzia di una Banca super partes (statale o cross paesi Ue, a scelta del lettore) che invece di salvare le banche dal fallimento le guidi nel chiedere rapidamente una procedura di chiusura e piloti verso altre banche più virtuose i creditori (specie se piccole e medie imprese o cittadini europei), lasciando che il mercato stesso premi i gestori finanziari più meritevoli ma secondo procedure garantite dall’alto e create nell’ottica di salvaguardare l’economia reale, così da renderla indipendente dalle vicende finanziarie non generate dalla medesima.

 

Una Europa che propone una visione alternativa a quella dei gruppi finanziari internazionali o a quella emersa da meri equilibri formali, sarebbe di sicuro più vicina all’obiettivo di un unione politica, perché questa volta sarebbe chiesta dalle società stesse, legate da problemi e soluzioni comuni e non divise da imposizioni e soluzioni settoriali: per un economista o un ragioniere è bello leggere una progressione statistica che tende ad un debito/Pil del 57% ed un deficit/Pil dell’1,9%. L’aspetto non economico non ha importanza perché è extra contesto, come ad esempio, l’assenza di assistenza sanitaria per chi non ha un reddito o la mancanza di istruzione e formazione per entrare, rimanere o rientrare nel mondo del lavoro.

 

Il realismo politico dovrebbe essere parte della classe dirigente (sia greca che europea) e guardare con occhio critico a quali sbocchi possa offrire il modello di sviluppo attuale in chiave di sostenibilità sociale, perché l’alternativa esiste, per chi vuole cercarla, con tutte le conseguenze che comporta, senza scorciatoie ma pagando il prezzo di una maggiore libertà per la propria autodeterminazione e facendosi carico, all’occorrenza, anche di riformare e reimpiegare 250 mila lavoratori ma questa volta solo a beneficio del paese, grazie a politiche di sviluppo diverse nei valori sociali di base.

 

Chiaramente non possono essere solo quantitativi gli indicatori riferiti alla crescita del nuovo modello, perché le società di capitali creano ricchezza quantitativa (ed è giusto che sia così) ma hanno obiettivi diversi dalle società di persone, la cui ricchezza prodotta ha come unità di misura la relazione solidale. Occorre dunque intelligenza politica e coraggio delle proprie azioni da parte della classe dirigente, qualunque essa sia, capace di adattarsi ai mutamenti sociali per garantire continuità ad una crescita equilibrata, coniugandone la sostenibilità non solo economica ma anche sociale.

 Roberto Spagnuolo