Giornalista, scrittore, ghostwriter (sono giornalisti che per Celebrità e leader politici sistemano autobiografie, articoli o discorsi) Francesco De Palo scrive da freelance di esteri, energia e aereospazio per Il Giornale, ilfattoquotidiano.it, Formiche, Airpress e Il Calendario del Popolo. Profondo conoscitore del Mediterraneo, ha seguito in loco la crisi greca per l’intero 2012 a cui ha dedicato il pamphlet Greco-eroe d’Europa (Albeggi ed.), vincitore dell’Alexandria Scriptori Festival nel 2014. Parla il greco moderno e dirige il magazine Mondo Greco. Dal 2013 è dirigente del Comitato Tricolore per gli Italiani nel Mondo (Ctim) e direttore dell’area comunicazione e delegato per la Grecia. Infine, De Palo è stato anche uno dei fondatori del mensile Prima di Tutto Italiani, di cui è direttore responsabile.

Ed è proprio per parlare degli italiani, soprattutto di quelli emigrati all’estero, che abbiamo intervistato De Palo che recentemente ha seguito a Chioggia un incontro del Ctim, insieme a Bruno Canella (già vice governatore del Veneto); Matteo Zanellato (portavoce del Centro Studi Europa); Roberto Menia (Segretario Generale del Ctim) e Arnaldo Ferrari Nasi (analista). 

Recentemente si è svolta a Chioggia la Seconda Scuola di Politica del Centro Studi Europa, patrocinata dal Comitato Tricolore per gli Italiani nel Mondo, del quale il vostro giornale è l’organo d’informazione. Ci può spiegare in estrema sintesi com’è nato e quali sono gli obiettivi principali di questo Comitato?

Il Ctim è nato nel 1968 per iniziativa dell’on. Mirko Tremaglia, che tanti anni dopo diverrà ministro proprio per gli italiani all’estero. Obiettivo del Ctim è sostenere e accompagnare le realtà nostrane che hanno deciso di emigrare per ragioni professionali, sociali, personali e contingentali. Si tratta di un impegno che ha trovato il proprio naturale perimetro all’interno della battaglia della Destra Italiana per il riconoscimento dei diritti degli Italiani all’estero, primo fra tutti l’esercizio del voto, risultato ottenuto proprio da Tremaglia in Parlamento nel 2000.

Inoltre il Ctim ha offerto un sensibile contributo al censimento degli Italiani nel mondo e all’istituzione dell’Anagrafe degli Italiani all’Estero. Per cui dopo molti anni gli Italiani nel mondo esistono ufficialmente per lo Stato Italiano: un pezzetto di questo merito è anche del Ctim. Il nuovo magazine, Prima di tutto Italiani, intende proprio dare risalto a queste, ma anche alle nuove istanze degli italiani all’estero che la modernità mette all’ordine del giorno: penso alle imprese che spesso non comunicano con le università, alle eccellenze che esportiamo intese anche come nuove occasioni professionali, alle nuove sfide di una globalizzazione che l’Italia potrebbe governare e non subire. Oggi l’emigrazione 2.0 non è parificabile a quella d’ inizio ‘900.

 Quali sono stati i punti essenziali che hanno caratterizzato il simposio di Chioggia?

Alla presenza del Segretario Generale del Ctim Roberto Menia si è discusso della contingenza delle elezioni per il rinnovo dei Comites, appena prorogate dal governo al prossimo aprile dal momento che la novità dell’inversione dell’opzione non era stata adeguatamente comunicata agli italiani all’estero. Come avevamo previsto solo il 2% degli aventi diritto di voto si erano iscritti nelle liste dei consolati. Il rischio concreto è che il tutto sia un flop. Ma l’accento è stato messo anche sulla spinta delle associazioni regionali nel mondo, censite dall’analista Arnaldo Ferrari Nasi, e sul ruolo di ambasciatori italiani nel mondo che i nostri connazionali svolgono ufficiosamente.

Non solo per il consumo e la diffusione di prodotti italiani, bensì anche perché sono vettori di cultura e di quel made in Italy che è il nostro petrolio. Cultura fa rima anche con storia, come quella della Grande Guerra di cui quest’anno si celebra il Centenario e che abbiamo ospitato sul nostro mensile intervistando il giornalista del Corriere della Sera Aldo Cazzullo. Nel suo ultimo libro racconta proprio la dignità, tutta italiana, dei veri eroi del ’15-’18.

Come giudica l’attività dei Comites, i Comitati degli italiani all’estero?

 Svolgono il proprio compito, a volte bene a volte meno bene, tra mille difficoltà come i tagli della spending review e la chiusura di molte sedi consolari e d’ istituti italiani di cultura all’estero. Il raccordo con la madre-Patria è soprattutto di natura culturale ed emozionale, per cui i Comites sopportano un doppio e gravoso peso. La contingenza dei tagli verticali a fondi e sostentamenti, se condotta senza entrare nel merito delle esigenze di associazioni e patronati, rischia solo di fare danni. E creare un risparmio oggi che si traduce, domani, in un ulteriore disservizio. Servirebbero test di valutazione sui risultati ottenuti, piuttosto. E’ altrettanto chiaro che le riforme e i cambiamenti devono appartenere al dna di una società che insegue il meglio, ma partendo da reali esigenze e non da titoli buoni per comizi o tweet.

Molti ritengono che l’attività dei rappresentanti degli italiani eletti all’estero mediamente non abbia corrisposto alle aspettative.  In sostanza, più che sostenere le esigenze degli italiani espatriati diversi eletti hanno coltivato i propri interessi politici ed economici fuori dall’Italia. Lei condivide questa opinione?

In parte. Non credo sia intellettualmente corretto generalizzare. E’ come dire che i penalisti sono tutti dei farabutti e che le ong siano tutte oneste. Occorre entrare nel merito di fatti e circostanze. Se si riferisce a taluni esponenti del nostro Parlamento eletti all’estero, bisogna ammettere che nel recente passato alcuni non hanno brillato né per competenze né per consistenza. Anzi, hanno rappresentato un preciso handicap sia nell’immaginario collettivo sia per le esigenze, ad esempio, di lavoratori e liberi profssionisti, per inciso ancora alle prese con il dossier Imu e con la pensione.

Penso ai periodici sproloqui offerti dal senatore Razzi da cui l’intero movimento non trae giovamento. Gli italiani all’estero sono istruiti, perfettamente integrati nelle singole realtà dove offrono contributi professionali e umani di altissimo livello, come dimostra il primo Columbus Day quest’anno celebrato a Dallas mentre altrove veniva boicottato.

Ci sono anche molti dubbi sulle modalità di elezione. In molti casi si è parlato di scarsa organizzazione se non di brogli elettorali. Non sarebbe forse il caso di sperimentare proprio all’estero il ricorso al voto elettronico, da estenderlo poi anche in Italia?

L’utilizzo della tecnologia mi vede completamente favorevole, ma prima di acquistare un aereo credo sarebbe necessario costruire gli aeroporti. Intendo dire che in primis bisogna creare le condizioni perché i nuovi mezzi siano operativi, magari partendo da una massiccia campagna informativa che spiani la strada agli esperimenti. Il diritto di voto per gli italiani all’estero è sacrosanto e va preservato anche con indicazioni pratiche dettate dalla logica e dal buon senso. Ogni passo affrettato potrebbe produrre più danni che benefici, con gli italiani residenti nei cinque continenti che ancora una volta ne pagherebbero il conto.

Oggi si sta verificando una nuova forma di emigrazione italiana. Parliamo spesso, della migliore gioventù che non trovando lavoro in Italia o perché sottopagata è costretta a trasferirsi all’estero. Non ritiene che questa massiccia fuga di cervelli potrebbe alla fine rivelarsi fatale per i destini del Paese? Qual è la posizione del Comitato Tricolore su questo argomento?

Il destino dell’Italia non è già segnato come molte Cassandre amano sottolineare, ma verrà deciso dalla politica di oggi e soprattutto dagli investimenti culturali e sociali che si andranno a realizzare. Se si decide di tagliare i fondi all’istruzione, alla ricerca e alle nuove tecnologie per continuare a foraggiare la cassa integrazione, ma è una mia posizione personale questa, significa che si paga qualcuno per non lavorare e al contempo si perde oggi un’idea che domani potrebbe tradursi in occupazione.

E’ un problema di cultura politica più che di macro economia. La nuova fuga dall’Italia è data da mancati investimenti, da un’estrema burocratizzazione, da troppi dipendenti statali, da un sistema pigro che respinge le opportunità per trovare riparo al calduccio delle consuetudini di ieri. Questo è un tessuto ormai in necrosi che è necessario rinnovare, ma sul serio.

Produrre occupazione significa attrarre investimenti, rimettere in moto l’economia, il commercio e i consumi, ma non è possibile farlo se la pressione fiscale è alle stelle mentre ad esempio l’Inghilterra ha avviato un percorso di riforme vere per rendere quel Paese attraente agli occhi di tutte le imprese. D’altronde perché la nuova Fiat-Chrysler di Marchionne ha scelto Olanda e Gran Bretagna per domicilio fiscale e tasse?

 

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