Recentemente è stata presentata a Roma la prima edizione del Premio Cendic – Segesta, dedicato alla drammaturgia italiana contemporanea, e promosso dal Centro Nazionale di Drammaturgia Italiana Contemporanea – Cendic, in collaborazione con il Comune di Calatafimi Segesta, il Calatafimi-Segesta Festival “Le Dionisiache 2015”, il Centro Teatrale Meridionale di Locri e il Teatro Arcobaleno – Centro Stabile del Classico di Roma (vedere servizio http://puntocontinenti.it/?p=7698 ).
Presidente del Premio è Maria Letiza Compatangelo, drammaturga, saggista, laureata in Lettere (Storia del Teatro), che ha scritto numerose commedie rappresentate in Italia e all’estero, pubblicate in volume e su riviste specializzate. Ha vinto vari premi teatrali nazionali e per due volte il Premio I.D.I. (Istituto del Dramma Italiano), con le commedie ‘Trasformazioni’ e ‘Il Veliero e il Pesce Rosso’. La sua ultima commedia, La cena di Vermeer, ha vinto nel 2014 i due più prestigiosi concorsi nazionali di drammaturgia: il Premio SIAE e il Premio Vallecorsi. Alla Compatangelo abbiamo formulato alcune domande sulla grave crisi che sta attraversando il teatro italiano.
Tutti parlano genericamente della crisi del Teatro italiano. Ce la può descrivere un po’ nei dettagli questa crisi, dal punto di vista economico, occupazionale, gestione dei teatri, qualità degli autori e attori (soprattutto giovani)?
La crisi è certamente influenzata dalla mancanza di risorse economiche che sta attanagliando gli enti locali e tutti i settori produttivi del nostro Paese, ma la gravissima e carenza di “investimenti in ricerca e innovazione” di cui tutti ora parlano, nel campo della produzione culturale è un vero e proprio vulnus che si trascina da anni e che potrei definire come incapacità di produrre un credibile progetto culturale a medio e lungo termine. Da parte politica ma anche da parte degli addetti ai lavori.
Non dimentichiamo che se dal dopoguerra il nostro Teatro non ha ancora una legge quadro, la responsabilità non è stata solo dei politici – che il più delle volte non sono competenti in materia – ma essenzialmente di chi, a livello sia pubblico, sia privato, ha gestito il teatro italiano in questi decenni… ed anche degli artisti, perlopiù irrimediabilmente autoreferenziali. Eduardo De Filippo denunciava questo stato di cose già nel 1958, nella sua lettera aperta al Ministro dell’epoca, Tupini. Per lui il teatro doveva “andare avanti con la vita”, ma questo non è accaduto.
La sua domanda mi sembra riferita essenzialmente al versante occupazionale e gestionale, per cui lascio da parte il discorso artistico per dirle che sino agli anni Ottanta intere categorie di attori, registi, tecnici, scenografi, costumisti e organizzatori (ma solo qualche drammaturgo) potevano vivere di teatro: un teatro costituito essenzialmente dalle cosiddette “compagnie di giro”, che avevano tournée che potevano durare anche otto mesi, da ottobre a maggio, a cui spesso si accompagnavano le “estive”, in luglio e agosto. Da molti anni questo impegno è diventato impensabile, anche per le formazioni più grandi e strutturate, con il risultato che per i giovani è diventato impossibile costruirsi con il teatro una vita lavorativa e una pensione. Si sono moltiplicate le piccole e piccolissime formazioni, le autoproduzioni, mentre si cerca di sbarcare il lunario saltando dal doppiaggio, al teatro, dall’insegnamento alla pubblicità, nella speranza di trovare un lavoretto nella fiction o al cinema.
Si moltiplicano le scuole di recitazione, oggi c’è più gente che vuole fare teatro di quanti vogliano andare a vederlo, ma ai giovani artisti manca, a mio parere, la possibilità di fare la gavetta. Intendo una gavetta vera, retribuita, che costituisca il primo passo nella costruzione di una carriera, e non una serie infinita di provini per produzioni non pagate, di stage a pagamento in cui praticamente questi ragazzi pagano per fare le prove di uno spettacolo, nel quale alla fine solo uno o due di loro saranno impiegati e forse remunerati (se non sono già stati scelti altri!).
Fuori da Roma e da Milano, la situazione è leggermente migliore: c’è meno ressa e per le giovani formazioni che riescono a radicarsi in un territorio – grazie anche al sistema delle residenze, che a mio parere dovrebbero essere allargate agli autori, come accade in altri Paesi europei – si aprono maggiori possibilità di crescita artistica, di sopravvivenza e paradossalmente, con il circuito dei Festival, anche di apertura su una platea internazionale. Continuando con i paradossi, questo stato di crisi perdurante e generalizzata ha creato le condizioni per tornare a parlare di drammaturgia italiana contemporanea. Come se, nella precarietà generale imperante, tra le categorie dei teatranti e i drammaturghi si fosse riannodato un filo di solidarietà.
Certo in questi decenni i drammaturghi si sono battuti contro l’esterofilia imbecille a tutti i costi, che ha messo la nostra scrittura teatrale in condizioni di minorità rispetto alle drammaturgie europee e d’oltreoceano, e questo ha senz’altro contribuito a creare una nuova sensibilità a riguardo, ma ora sono gli attori che cercano testi nuovi e i produttori hanno capito che una buona storia può contribuire a riportare il pubblico a teatro e a conquistarne di nuovo.
In occasione della presentazione del Premio Cendic lei ha parlato della necessità di “imprimere un segnale concreto di cambiamento e stimolo affinché la cultura possa essere il volano di una reale rinascita civile, sociale ed economica del Paese”. In concreto cosa s’aspetta esattamente dal potere politico?
La cultura produce ricchezza, lo spettacolo ha un indotto molto esteso ed ogni euro investito in questo campo ne produce quattro, con lavoro, sviluppo, coesione sociale e controllo del territorio. Bisogna però avere progetti chiari, coraggio e coerenza. Anche perché spesso la controparte non è all’altezza. Le faccio un esempio: il MIBACT ha emanato esattamente un anno fa un decreto che rivoluziona i criteri di ripartizione del FUS. Un decreto con qualche aspetto positivo, molte criticità ed alcune contraddizioni. Il progetto dichiarato era quello di intervenire, in assenza, come abbiamo detto, di una legge quadro sullo spettacolo dal vivo, su un meccanismo di finanziamento che stava producendo poca cultura e molte sterili posizioni di rendita, grandi e piccole. Il progetto reale – sto ai fatti – è risultato essere quello di disincentivare le domande di finanziamento e quindi ridurre la platea degli aventi diritto, imponendo nuovi parametri di accesso insostenibili per i più.
Su tutto ciò si è rapidamente innestato il tipico meccanismo del mors tua, vita mea, per cui le compagnie e i teatri più forti – o i più accreditati politicamente – invece di intavolare un confronto serio nel merito della riforma proposta e dei suoi punti di validità, sono stati tutti zitti, pensando di trarre vantaggi dall’eliminazione dalla competizione di tanti piccoli concorrenti. Ci sono stati mugugni, lamenti … ma quelli che più oggi si stracciano le vesti, perché eliminati dal novero dei Teatri Nazionali, o dei TRIC (teatri di rilevante interesse culturale n.d.r.) o addirittura dei Centri di Produzione Teatrale, sono proprio quelli che avrebbero avuto la forza e il credito per farsi sentire con competenza un anno fa, a beneficio di tutta la categoria.
Prima parlavo di coerenza, c’è un motivo: quando è stato emanato il Decreto del 1° luglio 2014, è stato detto e scritto che il modello a cui questa “rimodulazione” si era ispirata era quello francese, dove il teatro è nettamente ripartito tra teatro finanziato dallo Stato ed il teatro cosiddetto commerciale – che non vuol dire non colto! – che non gode di finanziati pubblici.
Peccato che nel voler riproporre questo modello non si è tenuto conto che in Francia esistono dagli anni ’60 ben 4 Teatri nazionali, completamente sovvenzionati, di cui due dedicati per statuto alla loro drammaturgia nazionale: la Comédie Française, fondata all’epoca di Luigi XIV, votata alla valorizzazione del repertorio nazionale, mentre il Théâtre de la Coline è preposto all’individuazione e produzione di testi contemporanei. Poi ci sono Théâtre de l’Odeon, che è il “Théâtre de l’Europe”, mentre al Théâtre National di Chaillot le produzioni sono più puntate sulla danza e il teatro musicale. Tutto ciò per creare una sinergia tra le diverse componenti artistiche e far nascere e crescere un vivaio di nuove idee e nuovi autori. Il decreto citato, invece, cosa ha prodotto in Italia? La scomparsa di tante piccole e medie compagnie che negli ultimi anni producevano drammaturgia italiana contemporanea, senza però prevedere il contrappeso di un Teatro Nazionale ad essa dedicato.
In questo quadro il Cendic ha lanciato un appello, lo scorso settembre, che in pochi giorni ha raccolto più di 1300 firme di autori, registi, attori, musicisti, tecnici, produttori, organizzatori, intellettuali, enti, teatri, sindacati, associazioni… Un appello al quale le Istituzioni devono ancora una risposta. Noi non vogliamo un Teatro Nazionale per il Cendic, vogliamo che nasca un’istituzione omologa a quelle esistenti da decenni all’estero, come il Royal Court a Londra, la Schaubuhne di Berlino o il citato Théâtre de la Coline a Parigi. Un progetto per l’Italia per il quale si potrebbero trovare risorse anche tra le somme dovute agli autori per la copia privata, la reprografia, etc. A parole tutti ci dicono che è un progetto al quale è impossibile dire di no, nella pratica occorrono politici coraggiosi, competenti e coerenti che vogliano dargli vita.
A proposito di crisi del teatro già nel 1928, il grande critico Silvio D’Amico, citando Firmin Gemiér (attore insigne, direttore dell’Odéon e presidente della Societé Universelle du Théâtre) sostenne in un articolo che «Oggi gli autori drammatici scrivono per i piccoli gruppi intellettuali, per una certa critica, per porre la candidatura all’Académie, non scrivono più per la folla. Sdegnano di fare quello che non hanno sdegnato Eschilo, Shakespeare, Calderon, Molière. E allora la folla, ch’essi affettano di ignorare, li abbandona”. Cosa c’è di vero ancora oggi?
C’è moltissimo di vero. La ricerca del nuovo per il nuovo sta diventando un’ossessione ridicola e un’ennesima forma di provincialismo; scrivere per piacere al critico o per il proprio salotto di amici è molto diffuso oggi in Italia. Non credo che tutto ciò sia positivo per la drammaturgia e per il teatro italiani, ma certamente lo è per alcuni. E qui la responsabilità è tutta della pigrizia e della logica da clan di chi è proposto alle scelte, che trova più comodo blaterare che in Italia non esistono autori teatrali… a parte i loro tre o quattro “protetti”.
Anche per questo il Centro Nazionale di Drammaturgia Italiana Contemporanea – Cendic ha voluto il Premio Cendic Segesta, un premio pensato dagli autori per gli autori, fuori da queste logiche di clan, cominciando dall’anonimato dei partecipanti garantito da un notaio, l’assenza di balzelli per sedicenti spese di segreteria e costose spedizioni di copioni. Con in palio la messinscena del testo vincitore e la garanzia di un’effettiva lettura da parte di giurati competenti. Visti i risultati, con oltre 90 testi pervenuti da tutt’Italia in meno di un mese, nonostante il tema obbligato del mito, forse ce n’era bisogno!
Come vede il futuro della drammaturgia italiana?
In divenire. C’è una grande confusione sotto il cielo… ma se la situazione sia o no eccellente, dipende dalla nostra volontà e capacità di cambiare le cose. I 180 drammaturghi iscritti al Cendic ci stanno provando in tutte le maniere: siamo nati per “riempire un vuoto istituzionale” (dopo la chiusura dell’IDI e dell’ETI), vogliamo un Teatro per la Drammaturgia Italiana Contemporanea ma nel frattempo – senza alcun finanziamento esterno – “lavoriamo al back stage”, con una serie di progetti volti alla promozione della scrittura teatrale nazionale in Italia e all’estero, alla formazione del pubblico e alla formazione degli autori. Perché la scrittura teatrale in Italia sia, come in altri campi autorali, una professione artistica qualificata che permetta a chi la esercita di vivere del proprio lavoro.
Maria Letiza Compatangelo