Nel riquadro Fabrizio De Jorio

 

Nell’ambito della stampa è nato un nuovo gruppo sindacale con il nome Giornalisti Italiani Uniti: si tratta di un gruppo molto agguerrito guidato dal Coordinatore Nazionale Fabrizio De Jorio, giornalista Televideo/Rai News e membro del Consiglio Direttivo della Stampa Romana. Una delle caratteristiche distintive di questo gruppo è quello di volersi aprire completamente alla società, e quindi non limitarsi a difendere corporativamente gli interessi dei giornalisti ma fare della libertà d’informazione una tutela efficace dei diritti sociali. Tutto ciò con il proposito di avvicinare nuovamente  i giornalisti alla gente, ridare credibilità e rivalutare una professione per molti versi in profonda crisi. In questo quadro anche l’utilizzo delle nuove tecnologie e della Rete va vista in chiave positiva e nell’interesse di tutti.  Ma lasciamo la parola a De Jorio. 

 

Da alcuni anni il gruppo Giornalisti Italiani Uniti è impegnato a portare nel sindacato, ma in generale nell’universo del giornalismo e dell’informazione, modelli alternativi che consentano di uscire dalla crisi, non solo economica, nella quale da anni versa il giornalismo e l’informazione. In sintesi quali sono gli obiettivi principali che vi proponete di raggiungere?

 

Partiamo dall’analisi: il giornalismo in Italia da alcuni anni soffre per la crisi economica, che ha colpito l’editoria, a seguito della quale hanno chiuso decine di giornali, settimanali, agenzie di stampa, televisioni, radio, non solo nazionali, ma soprattutto locali. La categoria, in generale l’informazione, sconta anche una profonda crisi di identità e di credibilità. Un giornalismo  troppo autoreferenziale,  dilaniato da contrasti interni, sotto pressione per mano degli editori che cercano di massimizzare i profitti, attaccato anche dalla politica che recentemente ha usato parole irripetibili insultando tutta la categoria, che non ha saputo cavalcare la trasformazione, le nuove sfide venute dalla Rete, i nuovi linguaggi del digitale, della cross medialità, ecc… insomma questo tipo di giornalismo non ha saputo rispondere con adeguatezza alle reali esigenze dei lettori, non ha intercettato il cambiamento della società ma soprattutto è stata sorda agli appelli che continuano a venire dall’opinione pubblica che desidera un’informazione autonoma, credibile e  libera dall’abbraccio soffocante della politica e dei poteri forti. In Inghilterra un giornalista non si accompagnerebbe con un politico nemmeno per prendere un caffè! Qui in Italia si fa a gara per mettersi sotto la copertura di partiti e uomini politici, con la conseguente perdita di autonomia e di quella terzietà di cui abbiamo da tempo smarrito le tracce… La disaffezione dei lettori ha origine anche da questo.

 

Cosa si può fare per arginare questo processo? Con i grandi cambiamenti tecnologici che stanno avvenendo su scala globale come sarà il futuro del giornalismo?

 

Alcuni mesi fa, i direttori dei tre più autorevoli quotidiani americani, ma direi anche a livello internazionale, New York Times, il Washington Post e il Wall Street Journal, hanno convenuto che il giornalismo del futuro sarà inevitabilmente sempre più connesso ai colossi del calibro di Google, Facebook e Twitter, compreso Youtube perché sono predominanti nella raccolta pubblicitaria. La sinergia tra informazione di qualità, autorevole e social, tra contenuti e piattaforme sui quali veicolare le informazioni, è già una realtà ma nei prossimi anni sarà implementata e regolata anche attraverso accordi di collaborazione e contratti economici tra i grandi players dell’universo dei media e dei social. Lo stesso CEO del New York Times, Mark Thompson, ritiene che i social network siano un canale indispensabile per veicolare i contenuti del quotidiano. Sinergia non significa che i media debbano giocare un ruolo di subalternità rispetto ai social e agli Over the top, bensì devono saper sfruttare le potenzialità dei social per metterle al servizio del lettore e dell’impresa editoriale.

 

Da quando Jeff Bezos, patron di Amazon ha comprato il Washington Post nel 2013, cioè in piena crisi dell’editoria mondiale, la prima azione che ha compiuto è stata assumere un centinaio di giornalisti per rilanciare il settore delle inchieste e degli approfondimenti, cioè il core business del quotidiano, e ha investito nell’edizione on line con una campagna di abbonamenti a pagamento, soprattutto per il digitale implementando in 5 anni del 200% le sottoscrizioni al quotidiano.  Ciò significa che quando l’editore investe in qualità, soprattutto durante periodi di crisi, il mercato e il lettore lo premiano.

 

Detto ciò, come sarà il futuro del giornalismo?

 

Tra 5 forse 10 anni, nessun quotidiano, qui in Italia, sopravvivrà  se gli editori non cambieranno strategia, investendo nelle tecnologie, assumendo forza lavoro altamente professionalizzata che risponda alle reali esigenze del cittadino/lettore che desidera essere informato senza filtri e soprattutto con tempestività. Il giornalista deve essere il watch dog della società, sempre al servizio del lettore, mai acquiescente verso il potere, non supino alle lobbies e autorevole. La sfida si gioca sul digitale: i quotidiani, periodici e in generale le testate sul digitale crescono del 5-6% l’anno. Tra poco più di 5 anni ci sarà il superamento rispetto alla carta. Se pensiamo che gli abbonamenti negli Stati Uniti crescono a fronte di una informazione di qualità, vuol dire che investire sui contenuti è l’unica chance per fare business. Insomma abbonamenti e pubblicità hanno fatto tornare a macinare utili per i grandi quotidiani americani che però hanno puntato sui contenuti e per questo si contendono i lettori a suon di inchieste e notizie. I lettori sono disposti a pagare a condizione che trovino sul quel particolare quotidiano notizie che non troverebbero da nessun’altra parte.

 

Certamente in Italia la crescita dei ricavi dei quotidiani online non si può paragonare a quella degli Usa, e indubbiamente gli editori non hanno la medesima strategia economica, industriale ed editoriale degli omologhi americani.  Lo stesso Urbano Cairo, Ad di Rizzoli Corriere della Sera, ritiene che per stare al passo con i tempi “bisogna investire molto ma la carta non va in pensione nell’editoria, resta una componente molto importante, specie per una realtà come Rcs nella quale, tra Italia e Spagna, rappresenta ancora oggi l’84% del fatturato“.  I grandi gruppi potranno infatti resistere con il cartaceo per qualche anno ma dovranno cedere il passo al digitale in tempi brevi.

 

Secondo il Global digital 2018, condotta da We Are social in collaborazione con Hootsuite, la piattaforma di social media management più utilizzata al mondo, dall’analisi dei dati provenienti da 239 Paesi, è emerso che ci sono più di 4 miliardi di utenti connessi sul web in tutto il mondo. In pratica più della metà della popolazione mondiale è connessa su internet. Un record storico che appunto ci dice quanto sta crescendo l’universo del web.

 

Parliamo di casa nostra. Il Dpr 146/17 rischia di far chiudere 1200 piccole radio e tv su 1600, imponendo diversi obblighi ‘impossibili’ per le piccole emittenti. Inoltre, è molto probabile che 9 Regioni su 20 resteranno senza una radio e una tv locale, che 5.800 mila persone (senza considerare l’indotto) saranno a spasso e che più di 700 giornalisti delle piccole emittenti non avranno più un lavoro. Non ritiene che questa sia una grave stortura poco seguita dalla stampa? 

 

I fondi pubblici previsti dal decreto 146/17 sono irrisori e impiegati male. A beneficiarne, sulla base di dati Auditel profondamente viziati da scarsa trasparenza e dal metodo non omogeneo, sono una decina di realtà editoriali in 10 regioni italiane, dimenticando tutte le altre. Sulla base di parametri incomprensibili quanto anticostituzionali, le piccole emittenti radiotelevisive locali che hanno un ruolo importante per il pluralismo dell’informazione e per la copertura delle notizie sul territorio, ricevono poche migliaia di euro, mentre  alcune “fortunate” come, per esempio, il gruppo Telenorba, hanno incassato fino a 6,5 milioni di euro lo scorso anno, drenando praticamente la maggior parte dei fondi a disposizione.

 

A seguito delle forti pressioni fatte, ad esempio, dal sindacato della REA, Radio Televisioni Europee Associate, il ministro per lo sviluppo economico Di Maio ha posto all’ordine del giorno del tavolo TV 4.0 le modifiche al DPR. Mi risulta che si sono delineate posizioni divergenti dalla REA da parte di Confindustria Comunicazione (alla quale Telenorba è iscritta) che non desidera apportare delle modifiche. Ora spetta al Ministro Di Maio decidere se il Dpr va modificato o se preferisce lasciarlo così com’è, penalizzando di conseguenza la maggioranza del comparto. A mio avviso sarebbe opportuno che il Ministro concordasse con tutti i players nuovi parametri e nuove linee guida per l’erogazione dei contributi.

x x x x x x x

Video suggerito . ONU e Nuove Tecnologie