Foto. Nei riquadri il Presidente della Cina Xi Jinping (a sinistra) ed Enea Franza.

 

I redattori del Gruppo di Pressione REA (Radiotelevisioni Europee Associate), in collaborazione con i colleghi del Sindacato RAI Giornalisti Italiani Uniti,  dedicano una particolare attenzione alle problematiche sociali e allo sviluppo economico sostenibile, con l’intento di promuovere un nuovo Risorgimento Economico e Ambientale. E’ quindi con grande piacere che Punto Continenti ospita l’interessante articolo di Enea Franza, condirettore della CONSOB, sulla tanto discussa nuova ‘Via della Seta’ promossa dal Governo cinese. 

 

La sfida di Xi Jinping. La Via della Seta  individua il reticolo, che si sviluppava per circa 8 000 km, costituito da itinerari terrestri, marittimi e fluviali lungo i quali, già a partire dalle dinastie Shang (1600-1046 a.C.), Zhou (1045-221 a.C.) e Han (206 a.C.-220 d.C.), si erano snodati i commerci tra l’impero cinese e quello romano, in prodotti quali la seta, la carta e la porcellana. Da qualche anno (con partenza dal 2013)  il governo di Xi Jinping sta attuando un ambizioso piano di investimenti, che prevede la costruzione ed il miglioramento delle infrastrutture, tra cui autostrade e linee ferroviarie per l’alta velocità ma anche porti e centrali energetiche, per far ripartire i commerci lungo l’antica Via della Seta tra Cina ed Europa, passando per il Medio Oriente. Lo scopo dichiarato dal governo cinese è dare nuovo slancio agli scambi commerciali. I progetti in corso prevedono due direttrici principali da Est a Ovest, entrambe arrivano in Europa: una terrestre che passa attraverso l’Asia centrale e una marittima che attraversa l’Oceano Indiano fino all’Africa, per poi piegare verso Nord. Secondo la Cina, al momento, hanno formalmente aderito 67 Paesi, firmando il Memorandum di intesa (MoU). Il Paese attualmente maggiormente coinvolto è il Pakistan, con cantieri per 60 miliardi.

 

È stato il governo  Gentiloni ad avviare la trattativa con la partecipazione nel maggio 2017 – unico capo di governo del G7 – al primo Belt & Road Forum. Con l’esecutivo gialloverde e, giallorosso adesso, il negoziato è accelerato, in quanto, secondo il governo l’adesione alla Via della seta attribuirebbe un vantaggio competitivo all’Italia che è in ritardo rispetto a Francia e Germania, e dunque permetterebbe di intensificare i rapporti con la Cina, attrarre maggiori investimenti ed intensificare l’export verso quel paese. L’accordo prevede la firma di un memorandum, che peraltro sembrerebbe immodificabile, atteso che un cambiamento concesso ad un partner aprirebbe la strada agli altri per chiederne una pari modifica. In Europa hanno già firmato:Ungheria (nel 2015), Grecia (si ricorda che Atene ha ceduto ai cinesi il controllo del Pireo) e Portogallo (entrambi nel 2018).

 

Dovrebbe l’Italia giocare la partita ?

 

Benefici a breve. Il cosa fare va affrontato in primo luogo riflettendo sui benefici di breve e, poi, sulle implicazioni connesse al modello di sviluppo del mercato cinese. Quanto al breve periodo, c’è consenso unanime sul fatto che un’apertura dei commerci mondiali determina un aumento delle esportazioni; in effetti, l’export cresce al crescere del reddito mondiale in maniera proporzionale allo stesso (e rafforzare gli scambi con la Cina vuol dire aumentare la quota di reddito mondiale per l’Italia); tuttavia, il beneficio è mitigato dal tasso di cambio reale che, visto il maggior livello dei prezzi interni  del nostro paese rispetto a quelli cinesi, sfavorisce le nostre esportazioni a favore delle importazioni. Non c’è invece consenso sul modello di sviluppo cinese. Secondo la teoria denominata “dello sviluppo a volo d’anatra” la crescita economica della Cina è dovuta essenzialmente alla condizione del mercato, ovvero, domanda/offerta di manodopera a basso costo e, questo, le assegnerebbe un ruolo simile a quello del Giappone degli anni ’70. Ora, il modello citato prevede che un Paese più sviluppato  diffonda la propria conoscenza ai Paesi meno sviluppati per diventarne, successivamente, mercato per l’export.

 

Il modello si può descrivere in modo sintetico attraverso le seguenti quattro fasi: 1. inizio importazioni dei follower dai paesi industrializzati; così inizia la comunicazione e il “contatto” con le altre culture. Ad esempio, quando Giappone importava cotone, tabacchi, orologi; 2. segue il forte aumento delle importazioni di macchinari e materie prime, e assume sempre più rilevanza l’industria locale dei Paesi follower; 3. iniziano le esportazioni (prodotti grezzi) e continuano le importazioni (di prodotti raffinati e costosi); 4. il ciclo finisce quando iniziano le esportazioni dai follower ai leader.

 

Quando i deboli diventano forti. Questa teoria è sia dinamica che determinista e, secondo Akamatsu, l’economista giapponese degli anni trenta che l’ha teorizzata, porta allo sviluppo ed al benessere mondiale. Non si tratta di una teoria di dominio,  è un modello di tipo win to win. Nel dettaglio: per quanto concerne le caratteristiche dei paesi i followers hanno a disposizione: bassi salari, bassi costi di materie prime, mercato locale; tramite lo scambio si crea un contesto culturale di apprendimento dagli altri paesi che consente la crescita. Ora i leader sono sempre nella posizione più scomoda in quanto saranno sempre rincorsi e imitati dai followers, e potranno cercare di preservare temporalmente la propria posizione attraverso l’aggiornamento continuo dei propri prodotti e/o introducendone di nuovi, in modo da soddisfare le richieste dei mercati. Il vantaggio dei leaders dura per poco tempo in quanto i followers utilizzano le loro tecnologie, la tecnica di produzione sulla base di industrie esistenti e ben collaudate per raggiungerli. In tale modello, la posizione che assumono i paesi non è mai definitiva, c’è sempre la possibilità per i deboli di diventare forti.

 

 

I rischi del modello ‘sviluppista’. Diverso (e attualmente più vicino alle posizione di Trump), è il cosiddetto approccio dello stato “sviluppista”, in cui si osserva che il rapporto con il mercato Cinese è fuorviato dalla massiva presenza dello Stato nei mercati. Nella sostanza in questo modello si osserva: la presenza di uno Stato autoritario e forte che sa opporsi alle logiche internazionali per proteggere la propria economia; la presenza di una burocrazia efficiente ed elitaria; la stretta collaborazione tra Stato e Mercato; l’impianto di una economia d’esportazione delle materie prime – Export oriented Industrialization (EOI). Sul cosa fare, va osservato che, in teoria, la strategia win to winè ottimale se ci si conserva parità di forza (cosa che i fatti concreti nei rapporti con la Cina sembrerebbero smentire). In effetti, la Cina descrive il progetto “Via della seta” come un progetto pacifico di rilancio della globalizzazione e dei liberi commerci, basato sulla logica del “win-win” e dei mutui benefici con i Paesi partners, e per i Paesi a corto di capitali, le istituzioni finanziarie cinesi intervengo addirittura con prestiti a finanziare la costruzione delle infrastrutture, che altrimenti non si potrebbero sovvenzionare. Per altro verso, se si analizza il mercato cinese, la “Via della Seta” è un progetto funzionale a dare sfogo alla sovraccapacità produttiva interna della Cina e, vari studi, hanno mostrato che oltre il 90% dei lavori viene affidato ad aziende cinesi, per lo più colossi di Stato; infine, i prestiti eventualmente concessi si devono ripagare con gli interessi e con sanzioni salate in caso di inadempimento.

 

Ciò premesso, una negoziazione ottimale in ambito win to win parte dal presupposto di tenere in considerazione sia i propri bisogni che quelli dell’interlocutore cercando vantaggi per entrambe le parti e si attiva con una metodologia ben consolidata che prevede di: comprendere gli interessi e gli obiettivi di entrambe le parti; individuare a cosa non è disposta a rinunciare ognuna delle due parti e sviluppare assieme più opzioni; avere e dimostrare un reale interesse nel trovare una soluzione soddisfacente per entrambi.

 

Tale strategia in un contesto reale è vincente, tuttavia,  se e solo se è possibile lasciarsi la strada aperta per un comportamento di tipo “Tit for tat”. Si tratta di una strategia, introdotta da Anatol Rapoport (psicologo e matematico americano nato in Ucraina, n.d.r.) nel 1980, molto efficace nella teoria dei giochi per risolvere il problema del dilemma del prigioniero ripetuto. Vediamo di che si tratta: un agente utilizzando questa strategia sarà inizialmente un collaboratore, in seguito risponderà con la stessa strategia delle mosse degli avversari: se l’avversario è stato a sua volta cooperativo, l’agente sarà cooperativo, in caso contrario no. L’applicazione della strategia dipende da quattro condizioni: in partenza, e se non c’è stata provocazione, l’agente è sempre cooperativo; se provocato l’agente si vendica; l’agente perdona subito dopo essersi vendicato, tornando a essere cooperativo; l’agente ha una consistente opportunità di competere con l’opponente più di una volta. In quest’ultima condizione è importante che la competizione continui abbastanza a lungo da consentire un numero di ritorsioni/perdono sufficiente a generare un effetto a lungo termine più rilevante rispetto alla perdita di cooperazione iniziale.

 

Dunque, il suggerimento, stante le premesse, è di approcciarsi all’eventuale firma del Memorandum of Understanding (MoU) con l’attenzione che merita un progetto che è certamente epocale, ma che visto le ambiguità insite nel progetto si presta ad infiniti possibili interpretazioni e sbocchi imprevedibili. In tale contesto è evidente che è necessario adottare una strategia condivisa che sia supportata ai più alti vertici e pienamente compresa dai cittadini. Di tutta evidenza la teoria economica ci suggerisce la strada e sarebbe sciocco non discuterne.

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