Con oltre 230.000 iscritti all’albo, il 35% dei quali opera senza uno studio, con i redditi professionali crollati e con una legittimazione molto discutibile, come dimostra la differenza tra il numero iscritti, per obbligo, e la scarsa partecipazione alle assemblee ed alle consultazioni elettorali, i vertici dell’avvocatura ripropongono il ritorno al medioevo per arginare un disastro facilmente prevedibile senza progettare un futuro per i figli che non siano i loro. Invece di abbattere le barriere, erette per proteggere i professionisti ed oggi diventati ostacoli per la loro affermazione, chiedono una riforma che parta dall’incapacità dei cittadini, tutti, per ovviare alla quale si chiede l’affidamento agli appartenenti alla categoria che ci vive sopra.

Così il cittadino dovrebbe credere che tassisti, farmacisti, avvocati etc. svolgono un’attività non per trarne un profitto ma per tutelarli. Se lo credesse davvero non sarebbe asimmetrico, sarebbe idiota!  Queste categorie, che  devono entrare nel merito delle questioni senza poter esercitare il ricatto a politici abituati a far prevalere le ragioni elettorali al benessere del Paese si trovano in difficoltà davanti ad un esecutivo che affronta tecnicamente i problemi e, soprattutto, che li conosce. Ma i suoi esponenti non riteniamo siano disponibili a coprirsi di ridicolo affermando che un numero limitato di esercizi sia nell’interesse dell’utenza o a ritenere normale che l’ordine forense continui ad essere ente pubblico non economico, cui è affidata la contemporanea tutela dell’iscritto e la collettività.

Questa forma ibrida genera il sospetto che si usi l’interesse pubblico per coprire interessi clientelari e che, comunque, favorisca l’intreccio perverso tra i portatori di consenso e la politica consentendo a quest’ultima di esercitare un ricatto legalizzato. Gli avvocati, invece di essere un contropotere rispetto all’esecutivo, dopo aver tollerato la mancanza di infrastrutture e beneficiato dell’inefficienza del sistema, mentre chiedono di essere statalizzati rivendicano una specificità che in un mondo piatto non esiste più.

Allo Stato solo un esecutivo non interessato a perseguire il consenso può definire in modo chiaro la struttura degli ordini, evitando che siano ancora cittadini e imprese a farsi carico del mantenimento delle categorie attraverso qualche adempimento superfluo, imposto per legge, al fine di giustificare il pagamento di un compenso. La rappresentanza degli ordini, se fosse meno corporativa e più lungimirante, dovrebbe sollecitare la liberalizzazione del settore dall’interferenza politica puntando sulla qualità delle prestazioni e sulla difesa dei diritti civili per riconquistare quel rapporto di fiducia, già seriamente compromesso, con i cittadini. I quali, sono stanchi di dover accettare prestazioni scadenti a prezzi esorbitanti e sanno che molte complicazioni sopravvivono per distribuire risorse ai facilitatori.