Stefano Schembri

Di Stefano Schembri

A poche settimane dal referendum sull’indipendenza della Scozia (18 settembre) si riapre il grande dibattito sulle due tendenze contrapposte che stanno caratterizzando lo sviluppo politico dell’Europa: da un lato la continua ricerca di una maggiore autonomia locale e dall’altra la necessità di una più marcata integrazione continentale. In altri termini, in un mondo sempre più globalizzato, con una crescente integrazione in una svariata serie di settori, non mancano le forze centrifughe. Ed è proprio all’interno dell’Unione Europea, di cui molti avvertono l’assoluta esigenza di una maggiore integrazione per contrastare maglio colossi come gli Stati Uniti, Russia, Cina, India e Brasile,  politica e fiscale, si trovano correnti indipendentiste che minacciano la già limitata sovranità dei 27.

 

Attraverso le diverse prospettive di casi rappresentativi come Catalogna, Paesi Baschi e Scozia, cerchiamo di analizzare come si evolverebbe la partecipazione di eventuali regioni, in secessione da paesi europei, all’interno delle varie Organizzazioni Internazionali, con un occhio di riguardo alla fattispecie più controversa, ossia l’eventuale adesione all’Unione Europea.

 

Attualità

In una Spagna dove perfino la monarchia è messa in discussione, il tema degli indipendentismi è oggi più in voga che mai. A partire dalla punta occidentale Galiziana fino a quella orientale Catalana, dai nordici Paesi Baschi fino all’estremo sud Andaluso, senza tralasciare le Isole Canarie, simboli come la bandiera e l’inno di Spagna, vengono spesso visti con diffidenza.

 

Le diverse identità spagnole si sono alimentate notevolmente in questi 30 anni di autonomie e mentre alcune convergono sull’ipotesi di un federalismo, altre si spingono a parlare di secessione, riportandoci alla mente la Spagna delle taifas, i piccoli regni feudali in cui si spezzettavano gli imperi musulmani iberici.

 

La distanza fra Madrid e le altre 16 comunità autonome sta però aumentando soprattutto per via della crisi che dal 2007 colpisce l’Europa. La disoccupazione sempre maggiore e le manovre impopolari del Governo Rajoy delegittimano le istituzioni alimentando i movimenti di protesta, che da un lato hanno confluito nelle manifestazioni di piazza degli ormai noti indignados, dall’altro rivendicano localismi e nazionalismi periferici. È così che mentre Bruxelles e Banca Centrale Europea pretendono austerity e rigore dalla Spagna, Madrid ne chiede altrettanto alle sue autonomie, che rifiutano scaricando le responsabilità sul Governo centrale.

 

L’esempio più lampante è quello catalano dove l’indipendentismo negli ultimi anni è in forte ascesa.

 

La mobilitazione politica del biennio 2009/2011 ha, con i referendum sovranisti, dato rilevanza ad una rivendicazione sempre esistita, ma a lungo tenuta a tacere. Le tornate referendarie svoltesi nelle varie province Catalane hanno portato alle urne il 21% degli aventi diritto, il quale ha votato SI con percentuali superiori al 90%. La massiccia affluenza (foto a fianco) alla manifestazione per l’indipendenza, svoltasi a Barcellona l’11 settembre 2012 (la Diada Nacional de Catalunya) con lo slogan “Catalunya, nou estat d’Europa” (Catalogna, nuovo stato d’Europa) è il simbolo del desiderio comune catalano.

 

Nel gennaio 2013 la Catalogna ha compiuto il primo passo giuridico verso l’indipendenza. Con 85 voti favorevoli e 41 contrari il Parlamento ha approvato una dichiarazione che la proclama soggetto politico e giuridico sovrano e prevede un referendum (9 novembre) nel 2014 per l’autodeterminazione. Manca tuttavia l’indispensabile via libera del governo centrale di Madrid, il quale sta tenendo un braccio di ferro con il governatore della Generalitat de Catalunya, Artur Mas, di cui è difficile pronosticare l’esito.

 

Simile è il caso del Regno Unito. Da sempre uno degli stati dell’Unione Europea più restii alle cessioni di sovranità, presenta al suo interno forze centrifughe più forti che mai. È in particolare la Scozia del First Minister (dizione adottata per differenziarsi dal termine Prime Minister, riferito ai Primi Ministri del Regno Unito) Alex Salmond, a rivendicare maggiori sovranità.

 

A differenza della Catalogna, nell’ottobre 2012 è stato raggiunto uno storico accordo fra Salmond e il Premier britannico David Cameron. L’accordo prevede, per la data del 18 ottobre 2014 (esattamente 700 anni dopo la prima guerra di indipendenza scozzese culminata con il successo nella battaglia di Bannockburn del 1314), un referendum sull’indipendenza della Scozia dal Regno Unito.

 

Al quesito referendario “Do you agree that Scotland should be an independent country?” risponderanno anche i sedicenni e diciassettenni scozzesi, nonché i detenuti (i quali solitamente non hanno diritto di voto in Regno Unito). Alla richiesta di aggiungere un secondo quesito, il cosiddetto “devo max”, che darebbe alla Scozia un’autonomia fiscale pressoché totale ma non l’indipendenza politica, si è opposto David Cameron nella speranza che le spinte del radicalismo nazionalista incontrino i timori e le paure della popolazione scozzese.

 

Nel caso il referendum passasse, è previsto un processo di transizione che garantirebbe una piattaforma costituzionale per una Scozia indipendente nel marzo 2016, prima della campagna elettorale 2016, così da dare ai nuovi eletti Parlamento e Governo la totalità dei poteri di cui avrebbero bisogno. La Scozia, come ad esempio l’Australia, otterrebbe l’indipendenza politica da Westminister, ma manterrebbe come capo di stato la Regina Elisabetta II.

 

Un risultato positivo del referendum potrebbe alimentare le velleità indipendentiste anche del Galles, il quale dagli anni ‘60 ad oggi ha visto triplicarsi il consenso per il Plaid Cymru, il“Partito dei Gallesi” spiccatamente indipendentista.

 

Adesione alle Organizzazioni Internazionali

Secondo il Diritto Internazionale, come decretato dalla Corte Internazionale di Giustizia in merito all’indipendenza del Kosovo dalla Serbia, non vi è alcuna proibizione generale a una dichiarazione d’indipendenza. La secessione non è né un atto legale, né un atto illegale, ma semplicemente un atto neutrale. Analizziamo però quali sarebbero gli scenari che si presenterebbero nel caso in cui eventuali regioni ottenessero l’indipendenza, per quanto riguarda l’adesione alle principali Organizzazioni Internazionali, partendo dalla più spinosa e intricata, quella all’Unione Europea.

 

Il rapporto fra le comunità autonome Basche e Catalane e l’Unione Europea è sempre stato buono. Nel corso degli anni i fondi comunitari hanno aiutato la Spagna a colmare il gap economico con il resto d’Europa, ma osservando attentamente la loro distribuzione si può anche affermare che hanno accentuato le disparità tra i poli più ricchi (Madrid, Barcellona, Bilbao) e quelli più arretrati (Siviglia, Asturie, Canarie). Legittimate dall’UE, le comunità hanno sempre guardato a Bruxelles come fonte di risorse, potere o autonomie a discapito di Madrid, i cui politici a loro volta hanno fatto a gara a chi concedeva più autonomie in cambio di maggiore potere al centro.

 

Il Governatore catalano, Artur Mas, Mercoledì 7 novembre 2012 ha sfidato l’ambivalenza dell’UE in merito alla crescita dei regionalismi nell’Unione, affermando che: “sarebbe illogico non accettare Stati piccoli, ricchi, pro-UE, come la Catalogna nel caso secedesse. Non sarebbero chiare le ragioni per cui un paese che fa parte dell’Unione Europea, che rispetta gli impegni ed è un contribuente rilevante, possa esser lasciato fuori”.

 

Anche il Lehendakari (governatore) dei Paesi Baschi, Iñigo Urkullu ha aperto le porte a una futura adesione all’Unione Europea, ma il tema a Bilbao resta in secondo piano vista la fase più arretrata del processo d’indipendenza rispetto a Barcellona.

 

La reazione di Madrid, il cui veto impedirebbe l’adesione di Catalogna e Paesi Baschi, è stata di natura completamente opposta. Il Premier, Mariano Rajoy, ha, infatti, definito le derive indipendentiste come delle “pazzie di proporzioni colossali”.

 

Ancora migliore è il rapporto fra Unione Europea e Scozia. Uno dei primi passi che il First Minister scozzese, Alex Salmond, ha promesso, nel caso passasse il referendum per l’indipendenza scozzese, è quello di fare richiesta di adesione all’UE, dimostrandosi totalmente contrario alla linea politica di David Cameron, il quale ha invece proposto un referendum per l’uscita del Regno Unito dall’UE. Secondo Salmond, se tale referendum fosse approvato, sarebbe un errore imperdonabile, ed un motivo in più per la Scozia per secedere dal Regno Unito e non perdere il proprio posto in Europa.

 

La vera domanda è però se l’Unione Europea è preparata a offrire soluzioni a “Paesi” sorti da secessioni. La divisione di uno stato membro in più parti, come potrebbe succedere anche con Italia e Padania o con Belgio e Fiandre, porrebbe nuovi quesiti all’Unione in un campo ancora mai toccato. L’unico precedente che viene in mente è la secessione algerina dalla Francia nel 1962, ma le analogie sono veramente poche.

 

Ci si chiede se il nuovo Stato dovrebbe ricominciare da capo l’iter comunitario, o otterrebbe lo status di membro automaticamente. Ma soprattutto si cerca di capire se tale dinamica possa portare a una crescita dell’Unione o a una sua erosione.

 

A favore degli indipendentisti sta che molti dei Paesi di ridotte dimensioni e popolazioni, come le repubbliche baltiche o i paesi scandinavi, hanno dimostrato di essere più efficienti, omogenei e governabili, e hanno avuto un ruolo positivo nella ripresa economica europea.

 

Il parere della vicepresidente della Commissione Europea, Viviane Reding, è però negativo in merito all’ipotesi di un’adesione automatica. Essa ha infatti scritto, in una lettera indirizzata al quotidiano spagnolo El Pais, che secondo la Commissione, una Catalogna indipendente non potrebbe far parte automaticamente dell’Unione Europea.

 

La sua linea di pensiero in realtà non è nuova. Nel settembre scorso, il presidente della Commissione Europea, José Manuel Barroso, rispondendo all’eurodeputata della Lega Nord, Mara Bizzotto, ha precisato che un Paese che si sarebbe reso indipendente non avrebbe avuto alcuna scorciatoia ma avrebbe dovuto seguire tutti i procedimenti standard per l’adesione. Da registrare che la risposta di Barroso però ha suscitato delle reazioni entusiaste anche negli esponenti dei partiti indipendentisti, riuniti al Parlamento Europeo nel Gruppo Europa della Libertà e della Democrazia, per via del fatto che uno spiraglio è stato per la prima volta lasciato aperto, quando Barroso ha affermato che nell’ipotetico caso di una secessione, la soluzione sarebbe stata cercata e negoziata secondo il diritto internazionale.

 

Già nel 2004, ai tempi del suo predecessore, Romano Prodi, fu trattato l’argomento. Interpellato sulla medesima questione dal parlamentare gallese Eluned Morganabout, la risposta dell’ex Premier italiano fu che quando una parte del territorio di uno Stato membro smette di farne parte, i trattati non si applicano al nuovo stato, il quale sarà considerato paese terzo rispetto all’UE e ai trattati comunitari, e pertanto dovrà ricominciare il processo di adesione. A tal proposito, l’articolo 49 del Trattato dell’Unione Europea, è molto chiaro.

 

Affinché tale processo si concreti, è però necessario il consenso unanime degli stati membri, e dunque anche della Spagna e del Regno Unito. L’intransigenza di Madrid non sembra al momento negoziabile. I sensori sono dati dall’atteggiamento che il governo spagnolo sta tenendo nei confronti di altre Regioni indipendentiste, come appunto la Scozia. Rappresentanti di Madrid hanno infatti dichiarato che qualora la Scozia ottenesse l’indipendenza, la Spagna non la riconoscerebbe, proprio come non riconosce l’indipendenza del Kosovo dalla Serbia. Vi sono poche ragioni per credere che la Spagna abbia controversie particolari con Scozia o Kosovo. Le sue posizioni sono invece facilmente riconducibili a una politica dimostrativa, contraria agli indipendentismi in generale.

 

Diverso è il caso britannico. Il Premier Cameron, si è mostrato molto aperto nei negoziati per il referendum terminati nell’ottobre 2012. Pur dichiarandosi contrario a una indipendenza scozzese, ha tenuto a precisare che la volontà del popolo scozzese sarà rispettata e che non verrà fatto ostruzionismo ad una eventuale richiesta di adesione all’Unione Europea. C onsiderando poi l’altro referendum di cui si parla inerente l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea, qualora venisse approvato, il consenso del Regno Unito non sarebbe più necessario all’entrata della Scozia nell’UE.

 

Una riflessione è opportuno farla: l’Unione Europea sarebbe veramente contraria all’accesso di Regioni economicamente fiorenti come Catalogna, Paesi Baschi, Fiandre, Scozia e Padania? Lascerebbe davvero a Spagna, Belgio, Regno Unito e Italia, la possibilità, con il proprio eventuale veto, di non farle entrare nel mercato comune? Secondo molti, difronte a eventuali secessioni, l’UE non si permetterebbe di perdere Regioni così produttive, ma minaccia tale comportamento onde scoraggiare i movimenti indipendentistici, in un momento in cui si cerca una maggiore integrazione.

 

Anche per quanto riguarda l’adesione alle Nazioni Unite, il procedimento che Catalogna, Paesi Baschi e Scozia dovrebbero intraprendere sarebbe quello di una trattativa per l’ammissione che parta da zero e segua le norme stabilite dall’articolo 4 della Carta delle Nazioni Unite. Un esempio  è il caso del Pakistan, il quale separatosi dall’India nel 1947, dovette entrare all’ONU secondo la procedura dell’art. 4. Più recente ma analogo, è il caso del Sud Sudan, resosi indipendente dal Sudan ed ammesso alle Nazioni Unite nel 2011.

 

Diversa è la procedura che la Carta prevede nell’eventualità di uno smembramento di uno Stato membro.Nei casi in cui, un Paese si divida in due o più Stati, e nessuno dei nuovi presenti una certa fisionomia o consistenza con quello precedente, tutti dovranno accedere alle Nazioni Unite mediante le procedure standard, com’è stato fatto da Repubblica Ceca e Slovacchia a seguito dello smembramento della Cecoslovacchia nel 1993. Nel determinare se uno Stato possa considerarsi successore del precedente, vengono tenuti in considerazione alcuni fattori come il possesso della maggior parte del territorio dello Stato precedente alla separazione, della maggioranza della popolazione, delle risorse, delle forze armate, della sede del governo e delle istituzioni, ecc.

 

Questo tuttavia è un problema che non si porrebbe a Spagna e Regno Unito, i quali molto probabilmente manterrebbero la propria partecipazione come fece l’India nel 1947.

 

Da menzionare le forti e influenti dichiarazioni del Segretario Generale ONU, Ban Ki Moon: “Il referendum catalano per l’indipendenza non solo è legale, ma è un processo strettamente legato al discorso dei diritti umani e della dignità delle persone che l’ONU rispetta e promuove nel mondo”.

 

Il processo di adesione all’Organizzazione Mondiale del Commercio è fissato dall’articolo 12 dell’Accordo Istitutivo dell’organizzazione (Accordo di Marrakesh), il quale stabilisce che: “qualsiasi Stato può accedere all’OMC. Tuttavia perché ciò avvenga, è necessario che la maggioranza qualificata degli altri membri dell’Organizzazione (i 2/3) si pronunci a favore“. Per Regioni ricche e produttive come Catalogna e Paesi Baschi, nonostante un eventuale veto della Spagna, trovare i due terzi dei Paesi favorevoli al loro ingresso non dovrebbe essere un problema, così come non dovrebbe esserlo per la Scozia.

 

Per aderire alla NATO, il discorso è lo stesso dell’Unione Europea, ovvero serve il consenso tutti i paesi membri. Catalogna e Paesi Baschi potrebbero dunque incontrare l’opposizione del Governo spagnolo così come la Scozia potrebbe incontrare quello, meno probabile, del Regno Unito.

 

Prospettive future

Al momento le Regioni in Europa più vicine a un’eventuale secessione sono la Scozia e la Catalogna. Nel caso raggiungessero l’agognata indipendenza, lo scenario più probabile, a fronte delle motivazioni sin qui citate, sarebbe il seguente: entrambe non dovrebbero avere problemi ad aderire alle Nazioni Unite, all’Organizzazione Mondiale del Commercio, al Consiglio d’Europa, e ad altre Organizzazioni Internazionali. Il loro destino sarebbe invece diverso per quanto riguarda l’adesione all’Unione Europea.

 

Da un lato la Scozia, non dovendo fare i conti con ‘veti reali’, come quello ipotetico del Regno Unito, potrebbe, negoziando, ottenere il consenso dei 27 membri dell’Unione Europea, dovendo solo superare l’ostacolo dei ‘veti simbolici’: cioè, dei paesi contrari alle indipendenze, come la già citata  Spagna o come Cipro (il quale ha dei problemi con la richiesta di indipendenza della Repubblica Turca di Cipro del Nord).

 

Dall’altro lato, invece, stando alle dichiarazioni ufficiali, la Catalogna (832.114 Kmq, 7,571 milioni abitanti, Pil 209,7 miliardi di dollari) rischierebbe un’esclusione per via del veto che le verrebbe posto dalla Spagna.

 

A quel punto la Catalogna probabilmente continuerebbe ad usare l’Euro come valuta nazionale (come attualmente fa il Montenegro, senza far parte dell’Unione Europea) e potrebbe aderire all’Associazione Europea di Libero Scambio (di cui fanno parte Svizzera, Norvegia, Islanda e Liechtenstein) il che le darebbe la possibilità di partecipare al Mercato Europeo Comune senza essere membro dell’Unione Europea, grazie agli accordi AELS – UE del 1994.

 

Non v’è dubbio, in conclusione, che la questione dei separatismi e delle secessioni farà parte nei prossimi anni dell’agenda politica europea, paradossalmente proprio nel momento in cui appare più evidente la necessità di rafforzare l’unione politica europea, oltre che quella finanziaria. Cronologicamente l’appuntamento più vicino è quello del referendum per l’indipendenza scozzese nell’autunno 2014. L’eventuale esito positivo potrebbe influenzare, a seconda dello sviluppo economico e del ruolo internazionale che essa si ritaglierà una volta indipendente, molte altre regioni, il cui processo indipendentista è in fase più arretrata.

 

Sul piano generale l’esperienza storica ci insegna che gli indipendentismi trovano i loro maggiori consensi nei periodi di crisi economica. Con ciò, non si vuole mettere in dubbio la spinta identitaria/ideologica, la quale ad esempio in Catalogna è molto forte (dall’energica difesa dell’idioma, al forte utilizzo di simboli come la bandiera Estelada, o la celebrazione di ricorrenze ed eventi propri). Tuttavia, se l’Europa saprà uscire dalla crisi, che da qualche anno ha fatto alzare inesorabilmente i tassi di povertà e disoccupazione, contemporaneamente si dovrebbe anche assistere ad una diminuzione delle probabilità di successo dei referendum indipendentisti o, come minimo, ad un affievolimento di queste tematiche dal punto di vista mediatico e di affluenza elettorale.

INDIPENDENTISMI NEL MONDO

Il tentativo di creare nuovi Stati non è ovviamente un fenomeno solo europeo, come emerge anche dalla recente guida  ai nuovi Stati elaborata dal giornale americano Boston Globe. Alcuni già sono Stati ma non riconosciuti come il Somaliland nel Corno d’Africa.  Altri vivono in una situazione del tutto precaria come il Sud Sudan, Abcasia, Ossezia, Transnistria. A questi vanno aggiunti i movimenti irridentisti della Corsica, delle Fiandre, dell’Irlanda del Nord, del Cossovo, della Cecenia, del Tibet, del Kasmir e perfino della Groelandia.  Ma ecco alcuni esempi:

Nuova Caledonia (18.576 Kmq, 240.586 abitanti, Pil9,8 miliardi di dollari). Con un’economia basata sull’agricoltura, turismo e nichel, la Nuova Caledonia (a 1500 km nel Pacifico) intende emanciparsi dalla Francia. E’ previsto un nuovo referendum nel 2018. Il primo tentativo venne respinto negli anni ’80.

Sahara Occidentale (226mila kmq, 500mila abitanti, Pil 906,5 milioni di dollari). Nel 1986 il Fronte Polisario ha proclamato la Repubblica democratica araba Sahrawi, staccata dal Marocco e riconosciuta da circa 80 Paesi e dall’Unione Africana.

Bouganville (9.318 kmq, 137mila abitanti, Pil …). Una delle isole maggiori delle Salomone intende staccarsi dalla Papua Nuova Guinea. Le lotte per l’indipendenza hanno già creato 20 mila vittime.

Kurdistan iracheno (40.643 kmq, 4,691 milioni di abitanti Pil 100 miliardi di dollari).  Le antiche aspirazioni indipendentiste del Kurdistan iracheno debbono oggi fare fronte alla pericolosa avanzata degli islamisti dell’ISIS e al loro obiettivo di creare un Kalifato.